Domenico Prole-della-Madre-di-Dio, anche se poco sappiamo della sua vita reale, doveva essere un tipo tormentato, pieno di ombre e di slanci passionali, carico di fede autentica ma anche di domande, un artista visionario che poteva creare qualche imbarazzo ai suoi datori di lavoro. Insomma, un nostro contemporaneo a tutti gli effetti. Eppure è vissuto più di 400 anni fa. Se lo incontrate a Milano, nell’eccellente mostra a lui dedicata nel palazzo Reale, prima che chiuda il 25 febbraio (è stata prorogata), percepirete subito, anche senza aver mai studiato storia dell’arte, che tanti pittori del Novecento a lui devono molto. Li ha preceduti secoli prima. È passato alla storia della pittura mondiale come El Greco. Perché del mondo greco era originario, dell’isola di Creta, e così lo chiamarono in Spagna.



Il suo nome integrale originario era Doménikos Theotokópoulos, e ve l’abbiamo tentato di tradurre nell’incipit. Allora l’isola era governata dai veneziani. Straniero in patria, rimase in definitiva uno straniero per tutta la vita. Si recò prima a Venezia, per carpire arte da Tiziano e da Tintoretto, poi a Roma, dove scoprì l’eredità di Michelangelo, per spendere il resto della sua esistenza e lasciare il meglio del suo talento a Toledo, in Spagna.



I 50 dipinti che la mostra offre non lasciano indifferenti. Conviene affrettarsi prima che l’esposizione chiuda i battenti. E viene da chiedersi che reazione abbiano avuto i suoi committenti, visto il suo genio anticipatore, non convenzionale, anche se molti dipinti fanno intravedere quanto El Greco apprese da Tiziano, Tintoretto o Michelangelo, o cosa trattenne dell’arte bizantina da cui proveniva. Ma è altrettanto evidente che la sua è una sintesi unica, personalissima, riscoperta solo secoli dopo. Quasi tutti oggi possono immediatamente riconoscere le sue tipiche figure allungate, contorte, e i suoi colori.



La mostra documenta alcune delle reazioni che l’accompagnarono in vita. Ci fu chi ne intuì il genio e chi invece rimase perplesso o stranito. Al re Filippo II, che pure compare tra i volti nel suo più celebre dipinto – La sepoltura del conte di Orgaz, non presente a Milano, ma evocata in qualsiasi catalogo o video – non piaceva. Resta il fatto che i suoi committenti furono in gran parte soggetti ecclesiali, nel clima della riforma cattolica avanzante, come risposta a Lutero e compagnia.

Chi cerchi immagini di intensa religiosità, qui le trova. Chi voglia scorgere ritratti con profonde introspezioni psicologiche tipiche della modernità, avrà anche questi. Chi ami l’espressionismo, ne vedrà le anticipazioni, come nell’ultimo dipinto, un allucinato Laocoonte alle prese coi serpenti. Per puro caso alcuni amici, che hanno visionato l’esposizione, si sono ritrovati tra le mani un testo di un politico cancellato nella storia italiana recente, Amintore Fanfani. Per quanto fosse di formazione un economista, Fanfani era un appassionato di pittura, nella quale si dilettava. Ed ebbe a lungo occasione di interessarsi del Greco e dell’influenza che potrebbe avere avuto su di lui santa Teresa d’Avila. Il pittore e la santa potrebbero anche essersi incontrati, anche se ne manca la prova documentale. Per Fanfani comunque molti suoi quadri si possono leggere alla luce del misticismo della santa, che tanto apporto diede a suo tempo alla riforma cattolica. A questa ipotesi interpretativa – che non pare oggi godere di particolare diffusione – l’ex leader storico della DC dedicò un saggio edito da Rusconi nel 1986 (Il Greco e Teresa d’Avila), probabilmente oggi introvabile.

Può darsi che esperti e studiosi d’arte storcano il naso a questa intrusione del dimenticato leader politico. Tuttavia potrebbe essere una sfida interessante cercare di cogliere, nei quadri esposti a Palazzo Reale, le tracce del misticismo di Teresa. La pattuglia di visitatori che si è ritrovata tra le mani quel testo dimenticato è giunta a una conclusione in proposito, ma non la sveleremo e lasceremo l’ipotesi da vagliare a chi vorrà investigare a Palazzo Reale, prima del 25 febbraio.

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