Da quasi quarant’anni, cioè da quando nel 1986 fu allestita la prima mostra su Edvard Munch a Palazzo Reale, le cose sono molto cambiate. Allora il catalogo avvertiva che l’inquieto artista norvegese (1863-1944) “non è molto conosciuto in Italia, tranne che da una ristretta cerchia di appassionati e di critici specialisti”. Oggi non c’è chi non abbia almeno sentito parlare de L’Urlo di Munch, forse anche perché il famosissimo quadro identifica quella sottile angoscia esistenziale che pervade il mondo contemporaneo e sempre più spesso si trasforma in un urlo muto e disperato. Eppure il dipinto-immagine dell’esposizione odierna non è quell’opera così celebrata, bensì la più serena Le ragazze sul ponte, del 1927: esprime sentimenti ben diversi, con colori più confortanti, che rivelano l’intento autentico del pittore: “Sto conducendo uno studio dell’anima, giacché posso osservarmi da vicino e usare me stesso come esperimento vivente per il mio studio. Proprio come Leonardo da Vinci ha indagato l’anatomia umana sezionando cadaveri così io cerco di sezionare anime”. Anche se appare evidente che il difficile vissuto personale dell’artista, insieme all’humus della cultura nordeuropea in cui si inserisce, non possono non costituire “la fonte di quel senso incombente di angoscia e di morte, di malinconia e di pessimismo, di orrore e disperazione che pervade la sua opera”.



Ma la biografia psichica di Munch non può essere l’unica chiave per comprendere un pittore che è giustamente annoverato tra i padri fondatori dell’arte moderna, con la capacità di trasmettere un messaggio universale, aldilà delle sue infelici se non drammatiche vicende familiari, segnate da lutti. Come afferma giustamente Domenico Piraina, direttore di palazzo Reale, la mostra ci permette di interrogarci su “un artista-profeta che ha detto, scritto, dipinto molte verità universali e assolute sulla vita rispetto alle quali non possiamo restare indifferenti, perché esse ci toccano da vicino”.



E del resto è questa la confessione sincera e generosa del genio norvegese: “Attraverso la mia arte ho cercato di spiegare a me stesso la vita e il suo significato, ma anche di aiutare gli altri a comprendere la propria”. Andiamo dunque oltre l’iconico L’Urlo (in mostra nella sua sobria ma non meno impressionante versione litografica del 1895), così popolare da essere presente anche con una celebre emoticon sui nostri cellulari. E inoltriamoci nelle serie di opere, un centinaio – eccezionalmente prestate dal museo di Oslo che le ospita – che ci stupiscono per la loro varietà di temi e sfumature di colore. “Non dipingo la natura, la uso come ispirazione… Non dipingo ciò che vedo, ma ciò che ho visto.”



Gli splendidi Autoritratti o le diverse versioni di Malinconia o i numerosi dipinti sul tema della malattia e della morte come il tenerissimo La bambina malata, Lotta contro la morte o La morte nella stanza della malata, testimoniano l’adozione da parte di Munch di tecniche inventive capaci di esprimere i ricordi e le emozioni che sfuggono all’occhio umano. Ci avvicinano a momenti dolorosi ma che ci coinvolgono profondamente nel comune destino dell’esistenza. Infatti anche la struggente tela Disperazione, scelta per la copertina del catalogo, ci porta oltre la semplificazione di un pittore privo di speranza, aprendoci – con i colori del giallo e dell’arancio sfumati nell’azzurro del cielo – a una nuova dimensione, aldilà dello sguardo cupo dell’uomo in primo piano che cammina sul ponte, oltrepassato dall’indifferenza assoluta dei due signori eleganti con la bombetta, che si allontanano ignari del suo dolore. E che dire dell’aspirazione all’amore che fonde i corpi nelle diverse versioni de Il bacio oppure delle Coppie che si baciano nel parco in un paesaggio finalmente idilliaco? Certo, il rapporto di Munch con le donne non è stato facile, come testimonia anche Attrazione, una litografia in cui i capelli della donna sembrano voler imprigionare l’uomo, o Madonna, con quella confusione erotico-religiosa che ha tormentato l’artista, tanto più in un ambiente puritano come quello norvegese, che lo fa giungere a  vedere l’essere femminile come un’Arpia o addirittura un Vampiro. Fino al terribile Autoritratto su sfondo verde, che in origine era accostato a Tulla Larsen, compagna profondamente amata e poi odiata, spezzato in seguito con violenza dall’artista, quasi a sancire la fine della loro travagliata relazione. In un altro quadro la sua compagna è vista addirittura come L’Assassina.

Malgrado le tematiche così inquietanti, perché la mostra milanese su Edvard Munch, che ebbe una vita tormentata e difficile, a tratti dissoluta – al punto di finire anche in manicomio per qualche mese – piace molto e riscuoterà sicuro successo? A parte la sua indubitabile fama, forse la spiegazione migliore ce la offrono le parole di Paolo Crepet in un catalogo del 2010 sui pittori nordici, compreso Munch: “Mi sono spesso chiesto perché l’uomo sia più incuriosito dalla malinconia che dalla felicità, forse perché la prima ce l’ha dentro mentre la seconda se la deve cercare ogni giorno”. In effetti la malinconia rappresenta l’uomo più di quanto possa fare la felicità, probabilmente proprio perché ciò che contraddistingue l’essere umano è l’anelito, il desiderio, addirittura l’attesa, la speranza di qualcosa di irraggiungibile. È questa la dimensione umana che Munch, nei suoi dipinti angosciati, regala allo spettatore curioso e disposto a meditare sulla profondità della vita. Forse l’arte del maestro norvegese, al di là del suo valore estetico e pittorico, ha proprio il compito di farci guardare dentro noi stessi per scoprire che noi, come il pittore, come tutti gli uomini, abbiamo una ineliminabile aspirazione alla bellezza e alla verità, proprio quando più soffriamo e ci sentiamo feriti dal destino.

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