Il complesso legame tra pittura e poesia che ha dato l’impronta di sé a una fase creativa molto importante nella storia della pittura italiana del Novecento si rinnova oggi in maniera inedita, offrendo all’osservatore una visione artistica che illumina la realtà di nuove prospettive di bellezza e significato. È quanto potrà vedere chi, mercoledì 6 novembre, visiterà la mostra di Elisabetta Necchio (Como, 1972) intitolata In-contro negli spazi della Galleria Rubin di Milano.
Già lo scorso luglio l’artista, in occasione della presentazione in anteprima in galleria del suo dipinto intitolato Marcos, ci aveva raccontato la sua esperienza in Argentina a contatto con la vita quotidiana nei diversi quartieri di Buenos Aires. La mostra di novembre sarà il momento per esplorare con lei la complessità del legame tra pittura e parola.
Oltre a vedere una decina di opere inedite, infatti, toccheremo con mano la profonda connessione, sia personale che creativa, che la lega alla poetessa argentina Alicia Saliva (che ha tratto ispirazione da alcune sue opere pittoriche per il libro di versi di prossima pubblicazione), che in una serie di annotazioni a margine intitolata Encuentros ci parla del fascino dell’incontro: “[…] non è necessario che tutto vada bene perché esista un incontro. Dentro/contro dice l’etimologia, entrambe le cose allo stesso tempo perché nell’incontro c’è sempre interiore in giro e un esteriore con il quale rischiare”.
Nelle opere di Elisabetta Necchio, infatti, emerge il contrasto tra la realtà spesso dura e la luce che, in qualche modo, filtra a livello interstiziale, sia in senso ideale che pittorico: lo possiamo vedere, ad esempio, in una grande tela che raffigura tre diversi livelli di agglomerati urbani tipici di Buenos Aires, illuminati in alcuni scorci da un bagliore di luce quasi accecante, fiammeggiante come il sole al tramonto. Sono “accenti” che “muovono” il quadro, suggestione che si rinnova in un’altra tela di grande formato che raffigura uno scorcio cittadino dominato da un’imponente volta arborea, con auto parcheggiate e in primo piano un oggetto misterioso abbandonato.
La recente produzione artistica della Necchio è infatti ispirata da una serie di incontri (da qui il titolo della mostra) nel corso di passeggiate per le strade di Buenos Aires, dove ha osservato quella varia umanità che vive ai margini della società, cartoneros e venditori ambulanti: “L’oscurità c’è, ma allo stesso tempo c’è una lente, un fuoco, una certa inquadratura che lascia passare abbondante luce”, scrive la poetessa Alicia Saliva.
Questo contrasto tra ombra e luce si riflette nei dipinti, che attraverso il processo di trasformazione artistica decontestualizzano la durezza della realtà palesando una bellezza intrinseca e nascosta. È quanto si può provare osservando una sua terza opera caratterizzata dal primo piano di un paio di scarponcini dal colore rosso fiammeggiante, un altro dei succitati “accenti” di luminosità che fanno vibrare la composizione. L’effetto è simile a quello che proviamo osservando – valga come rimando esplicativo – La morte di Sardanapalo di Delacroix, dove il dettaglio del colore rosso delle redini del cavallo in primo piano rivoluziona l’opera nella sua totalità.
Di suo la pittura della Necchio ha questo: azzeramento del fondo, su cui per contrasto si “accendono” forme e figure. Un’eredità del suo maestro di pittura Beppe Devalle (Torino, 1940; Milano, 2013), fra i grandi maestri della pittura contemporanea italiana, già docente all’Accademia di Brera. Profondo conoscitore del colore e della composizione, Devalle aveva tradotto questa conoscenza in grandi opere realizzate con tecnica pittorica impeccabile.
Nel percorso artistico di Elisabetta Necchio, come in quello del suo maestro, si avverte un forte tributo al “pop” (perché al di là della grammatica del colore il pop aveva anche una sua drammaticità, come disse la critica Lea Vergine), per quella sua capacità di analizzare la società contemporanea evidenziandone le contraddizioni.
Questa sorta di “ritrattistica psicologica” esercita un forte ascendente sulla pittura di Elisabetta Necchio, che trasforma la quotidianità in una rappresentazione simbolica di dignità, enfatizzando la forte dimensione umana attraverso dettagli di oggetti umili come delle scarpe consumate. Con pennellate decise e colori vibranti crea un linguaggio visivo capace di trascendere il dato di partenza, cioè la realtà, anzi la dura realtà, invitando l’osservatore a riflettere su una dimensione più profonda, quella della bellezza nascosta nelle storie degli “invisibili”, con cui avviene il nostro incontro/scontro.
Come ha scritto Alicia Saliva, “Nella sua pittura [Elisabetta Necchio] compie un lavoro di decontestualizzazione. Come se attraverso l’uso del pennello volesse, pregasse, agisse con il desiderio che cambi quella dura realtà. I passi della trasformazione sono infiniti. Il dipinto lascerà vedere che tipo di traccia lascia quell’incontro”.
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