Sta circolando in questi giorni sui social un meraviglioso video dove il grande Enzo Mari spiega la sua filosofia pedagogica: davanti a una lavagna lo vediamo tracciare sul lato estremo destro una linea verticale, come un traguardo, ad indicare quella che lui definisce la “qualità massima espressa dall’uomo”. Volendo essere più concreto fa anche due nomi: la qualità di Piero della Francesca e Bach. Sul resto della lavagna il grande designer (celebrato in questi mesi da una mostra a Londra) traccia delle linee orizzontali a indicare i percorsi suo e dei suoi allievi: devono tendere tutti verso quel traguardo ma si fermano necessariamente prima, chi più o chi meno. Tuttavia, spiega, non è quello il problema, l’importante infatti è non staccare lo sguardo da quel riferimento di “qualità massima”, che è insieme intellettuale e morale, cioè umana.
Proprio in questi mesi a Milano c’è una possibilità eccezionale di specchiarsi in questa “qualità”, grazie alla mostra che raduna per la prima volta, dopo l’avvenuta dispersione, i pannelli ancora esistenti del Polittico di Sant’Agostino, un capolavoro di Piero della Francesca dipinto intorno al 1462 per la chiesa degli Eremitani di Borgo San Sepolcro, la sua città natale. Oggi gli scomparti restanti sono divisi tra diversi musei in Europa e negli Stati Uniti ed è un merito di Alessandra Quartu, direttrice del Museo Poldi Pezzoli, dove è conservato quello con San Nicola da Tolentino, essere riuscita nell’impresa di riunirli.
Perché Enzo Mari, prototipo di uomo del 900, sempre genialmente sperimentale e alternativo, indica proprio Piero della Francesca come parametro? Per capirlo bisogna mettersi di fronte ai quattro santi che costituiscono la parte più stupefacente di ciò che resta del Polittico: oltre a Nicolò, ci sono Agostino (la committenza era per una chiesa agostiniana), San Michele Arcangelo e Giovanni Evangelista. Sono in piedi, frontali a noi e occupano lo spazio con una solidità che non contempla esitazioni psicologiche. Come aveva colto Roberto Longhi, il più grande e ancor oggi indispensabile interprete di Piero della Francesca, c’è qualcosa di arcaico in queste grandi figure piene di certezza. Un’arcaicità che il grande storico dell’arte definisce in modo indimenticabile: “Quella pura e semplice perennità di certe sorgenti visuali che soccorrono nei momenti decisivi gli assetati d’invenzioni, riconducendoli sulla via maestra della tradizione figurativa”.
Assetato d’invenzione e radicato nella tradizione: già nella coesistenza di dicotomia si capisce perché Enzo Mari elegga Piero della Francesca a parametro di riferimento assoluto. Sopra i quattro santi si spalanca poi un cielo di un azzurro mediterraneo, un azzurro di una luminosità senza esitazioni. Longhi parla di “tersità di visione”, di “calma supremamente spettacolare”. E poi scioglie il senso di questi “tasselli di cielo”, così costanti nelle opere di Piero della Francesca, dicendo che sono emblema di una “pacificazione sovrana”, dove non c’è più “nessun contrasto tra l’uomo e le circostanze”, dove “la natura si allea alla pari con l’uomo”. Gli abiti che portano sono frutto di una manifattura di stupefacente ricchezza e qualità: così in Piero della Francesca Enzo Mari vedeva probabilmente l’apoteosi di quell’anima artigiana propria della vera cultura italiana.
Un’anima a cui, lui, grande designer del Novecento, sentiva di appartenere. Alle spalle di un genio come quello di Piero della Francesca ci sono naturalmente una forza intellettuale e coerenza teoretica inarrivabili: i suoi libri sulla teoria del dipingere lo documentano. Eppure, come scrive sempre Longhi, si tratta di “un teorema che viene poi dolcemente a rivestirsi e come a intiepidirsi in uno spettacolo”. La fortuna nostra è che quello spettacolo sia sempre davanti ai nostri occhi e che, come dice a chiare lettere Enzo Mari, è orizzonte a cui poter e quindi dover sempre guardare.
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