Mirabile intersezione, stupenda da contemplare nella sua imponente realtà oggettiva: il bisogno di guardare in faccia il Mistero che si rivela, a partire dal centro supremo di irradiazione che è il Figlio di Dio fatto uomo, immerso nel profondo della storia del mondo, ha attraversato lo sviluppo della coscienza cristiana fin dai suoi inizi.



C’è voluto del tempo perché questo desiderio di ancoraggio realistico venisse esplicitamente teorizzato anche in termini dottrinali. Ma la direttrice di fondo si era delineata già nei primi secoli del cristianesimo antico, vincendo le opposte tendenze dello spiritualismo radicale che invece preferiva rimarcare l’assoluta alterità del divino rispetto alla materialità dei segni che la veicolavano tentando di renderla avvicinabile in base alle logiche dell’esistenza umana.



Un passaggio suggestivo è quello che si lega alle lucide prese di posizione di Giovanni Damasceno, monaco a San Saba, nei pressi di Gerusalemme, negli anni intorno al 700. Come scrive papa Benedetto XVI nel profilo a lui dedicato ora inserito nel volume I miei santi. In compagnia dei giganti della fede (Terra Santa Edizioni, 2023), il Damasceno “è stato testimone oculare del trapasso dalla cultura cristiana greca e siriaca, condivisa dalla parte orientale dell’Impero bizantino, alla cultura dell’islam, che si andava facendo spazio con le conquiste militari nel territorio riconosciuto abitualmente come Medio o Vicino Oriente”. In questo cambio decisivo di scenario riemerse il problema del potere rivendicato dalle immagini in quanto filtro di mediazione facilitante nel rapporto con la sfera del trascendente.



La tradizione ebraica si era orientata a favore dell’esclusione totale delle raffigurazioni dalla pratica del culto religioso, e così pure la predicazione islamica, fortemente condizionata dai precedenti del monoteismo semitico, aveva fatto proprio il rifiuto dell’utilizzo delle immagini imposto dal codice rigorista dell’Antico Testamento. Nella scia della rivoluzione cristiana si era invece affermata l’esigenza di oltrepassare il divieto intransigente di elevare le forme materiali a strumenti di alimentazione del legame con la sacralità dello spirituale. A questo compito di difesa della nobiltà del sensibile, di ciò che si può vedere e si può toccare, Giovanni Damasceno dedicò i suoi talenti letterari e la sua capacità oratoria, nutriti dalla lezione della grande antichità classica.

A lui si devono tre importanti discorsi indirizzati allo scopo di criticare le posizioni di coloro che disprezzavano il valoro delle sante immagini, discorsi che proprio per questo furono condannati, dopo la sua morte, dal concilio iconoclasta di Hieria, nel 754. Ma in questi testi – annota Ratzinger – “è possibile rintracciare i primi importanti tentativi teologici di legittimazione della venerazione delle immagini sacre, collegando queste al mistero dell’incarnazione del figlio di Dio nel seno della Vergine Maria”.

“In altri tempi Dio non era mai stato rappresentato in immagine – sentenzia il Damasceno nel suo Contro i calunniatori delle immagini -, essendo incorporeo e senza volto. Ma poiché ora Dio è stato visto nella carne ed è vissuto tra gli uomini, io rappresento ciò che è visibile in Dio. Io non venero la materia, ma il creatore della materia, che si è fatto materia per me e si è degnato di abitare nella materia e di operare la mia salvezza attraverso la materia. Io non cesserò perciò di venerare la materia attraverso la quale mi è giunta la salvezza”.

In Oriente si era accesa una lotta intorno al peso da attribuire all’intima connessione tra il materiale e ciò di cui la materia doveva rimanere umile rinvio. Le aperture a favore del valore delle immagini, da cui sarebbe fiorita l’apoteosi delle icone nell’ortodossia greco-bizantina e poi slava, rimasero oggetto di controversia ancora per diversi decenni. Il Damasceno fu riabilitato nel secondo Concilio di Nicea del 787 e persino canonizzato. Nella seconda ondata iconoclasta del IX secolo, il medesimo orientamento di sostegno del valore sacramentale delle immagini e degli altri segni materiali come le reliquie fu ribadito da altri maestri di vita religiosa come san Teodoro Studita, anche a costo di persecuzioni e dure sofferenze inflitte dalla cerchia più vicina al potere imperiale di Leone V l’Armeno, che si opponeva alla presenza dei segni figurativi nelle chiese adibite al culto pubblico dei cristiani.

Questa linea di ostilità alla rappresentazione dei punti di riferimento fondamentali della fede comune si rivelò alla fine perdente. L’Oriente ortodosso nel suo insieme prese le distanze dalla negazione della dignità dei segni sensibili che richiamano alla verità e alla bellezza affascinante di ciò che è diretta espressione del mondo celeste. A maggior ragione l’Occidente latino divenne il grembo accogliente nel cui seno maturò un’arte sempre più desiderosa di restituire sembianze decifrabili al Verbo che ha sfidato l’audacia di farsi carne, e nello stesso tempo a tutto il fiume di vita rigenerata che dal suo sacrificio sulla croce aveva preso avvio, attraverso la catena di testimonianze e di virtù prodigiose della Vergine Maria, dei martiri e dei santi di ogni epoca della storia. Solo una sembianza umanamente decifrabile poteva aspirare alla capacità di fare presa sugli affetti del cuore e di incardinarsi nell’attualità di una presenza.

La vicenda appassionante della scoperta e dell’onore crescente riservato al ruolo dell’immagine sacra nel contesto bimillenario della cristianità è al centro di un altro libro veramente prezioso lasciatoci in eredità da uno dei maggiori esponenti della cultura europea dell’ultimo secolo. È il volume, anch’esso postumo, di Alphonse Dupront, per ora disponibile solo nell’originaria versione francese: L’image de religion dans l’Occident chrétien. D’une iconologie historique (Gallimard, 2015). Anche nel nostro contesto contemporaneo, inquinato da una banalizzazione della dignità della persona umana che ha finito con l’impoverire la sua stessa rappresentazione nel segno artistico, l’attaccamento al patrimonio figurativo della tradizione plasmata dall’annuncio cristiano rimane una ricchezza che va difesa e incrementata, da cui non si può evitare di continuare ad attingere.

Dare una forma all’invisibile, approssimarsi al totalmente Oltre facendo leva sui segni che ne riecheggiano la grandezza insuperabile è una delle strade da percorrere per ridare sostanza a un annuncio concepito per cambiare la vita, spalancandola al suo destino infinito. Non per niente è un annuncio incardinato nella storia di uomini in carne e ossa che ci hanno preceduto sul filo del tempo. Passa attraverso corpi che hanno mani, occhi e un volto, come ognuno di noi. Ci guardano, e noi possiamo ritrovare in loro la nostra identità nascosta e più autentica, da far risorgere.

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