Padova, splendore del nostro Trecento. Padova, città dove soggiornarono Dante, Petrarca e Boccaccio. Padova, città del “Santo” (sant’Antonio da Padova) e governata dell’illuminata signoria dei Carraresi. Padova sede di una delle più antiche università italiane (1222), dell’Osservatorio astronomico di Galileo Galilei e del più antico Orto botanico del mondo (1545), nominato dall’Unesco patrimonio dell’umanità insieme alla Cappella degli Scrovegni (affrescata da Giotto di Bondone tra il 1303 e il 1305) e al Battistero di san Giovanni Battista, affrescato settant’anni dopo (tra il 1375 e il 1376) da un pittore seguace di Giotto: Giusto de’ Menabuoi.
È lui il protagonista di questo 2024 all’insegna della pittura, tanto che l’Unesco ha dichiarato Padova Urbis picta: città dipinta. Il Battistero di san Giovanni, con gli affreschi di Giusto, da poco restaurati, si sono rivelati così al vasto pubblico come uno dei capolavori della pittura italiana, restituiti al pubblico in un nuovo percorso che da quest’anno, con un unico biglietto, consente di visitare il Battistero, la Cattedrale di Santa Maria Assunta e il palazzo vescovile sede del Museo Diocesano, ricco di 400 opere d’arte. Il pubblico ha risposto positivamente e le visite sono passate dalle 5mila del 2023 all’attuale cifra record di 20mila visitatori.
L’edificio circolare del battistero sorge a fianco della cattedrale e rappresenta una vera e propria “scatola delle meraviglie”, luogo della bellezza e insieme della “salvezza cristiana”, dove l’arte gioca il suo ruolo di ancella della fede. Giusto de’ Menabuoi – fiorentino come il suo insuperabile maestro Giotto – affronta come lui il tema della vita di Gesù, inserendola però in spazi prospettici più elaborati, al passo coi progressi della scienza visiva. Giusto de’ Menabuoi apre la stagione di un nuovo realismo pittorico: colori, gesti, forme, abbigliamenti, capigliature e oggetti d’uso comune così “virtuali” nella loro rappresentazione da darci l’illusione di essere anche noi seduti a tavola con i commensali dell’Ultima Cena, e verrebbe voglia di allungare la mano al bicchiere di vetro trasparente e assaggiare quel vino che Gesù ha appena trasformato dall’acqua delle sei giare.
Le scene si svolgono non solo lungo le pareti dell’edificio a pianta centrale ottagonale ma anche nei sottarchi, nei pilastri e nelle volte con soluzione di continuità, secondo l’intelligente regia della committenza, tutta al femminile, di una donna, Fina Buccazzarini, moglie di Francesco da Carrara, signore della città, che volle quell’edificio (costruito due secoli prima e consacrato nel 1281) restaurato e interamente affrescato come mausoleo di famiglia. E Giusto de’ Menabuoi ritrae Fina insieme alle tre figlie, inserendo la famigliola nell’episodio della nascita del Battista; poi dipinge Fina con il marito Francesco e nel circolo dei più noti letterati dell’Umanesimo padovano, tra cui lo stesso Petrarca.
A testa in su lasciamoci dunque avvolgere, affascinare, prendere, trasportare da questo concerto di immagini di straordinaria bellezza. Si parte dal tamburo, l’anello più basso della cupola con storie della Genesi, per risalire poi alla fascia principale con la narrazione della vita di Gesù. Rispetto alla linearità degli Scrovegni, qui tutto ruota intorno all’asse centrale, come se un invisibile filo a piombo scendesse dalla cupola alla sottostante vasca battesimale. Le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento culminano nel tiburio in un infinito turbinio di angeli e di santi sovrapposti – quasi una giostra in movimento – disposti su tre registri. Luccicano centinaia di aureole dorate, il tutto dominato dalla grande figura di Maria al centro, vestita di azzurro-cielo, colonna e fondamento della Chiesa trionfante (e Madre della Chiesa errante qui sulla terra). Con gli occhi fissi nella celeste visione, non si può fare a meno di pensare a Dante che proprio qui a Padova scrisse il Paradiso, forse anche ispirato dagli affreschi di Giotto.
Si giunge infine nel centro della cupola con l’immagine del Cristo giudice e signore dell’universo. E qui il credente e il non credente si ritrovano insieme, sullo stesso piano, a misurare con lo stesso (incredulo?) sguardo qualcosa di immenso, di non misurabile, il mistero di un Dio che ha la faccia di un uomo la cui vicenda terrena – dolorosa e gioiosa insieme – è stata appena raccontata più in basso nelle storie evangeliche.
Potrebbe bastare agli occhi, al cuore e all’immaginazione. Ma non è così. Nella cappella laterale Giusto de’ Menabuoi ha rappresentato con estrema precisione – quasi dovesse miniare in punta di pennello sulla grande parete un codice prezioso – le misteriose e indecifrabili visioni dell’Apocalisse di san Giovanni evangelista. Vale la pena di seguire la sequenza dei riquadri con un testo-guida per identificare, per esempio, i quattro cavalieri dell’Apocalisse (rosso, bianco, nero verdastro), il drago dalle sette teste, l’angelo che versa sangue nel fiume e l’altro angelo che versa sulla terra la coppa dell’ira di Dio. Scorrono sotto gli occhi le immagini dei 24 vegliardi e, sciolti i sette sigilli, le trombe degli angeli annunziano i sette flagelli: la peste, le cavallette, cataclismi naturali e terremoti si alternano a maremoti, cadute di stelle… e una Donna nel cielo che partorisce il Bambino, insidiata dal Drago infernale. Brividi e suspence.
Terminata la visita agli affreschi il percorso museale si sposta nella cattedrale e poi al palazzo vescovile, sede del Museo Diocesano, dove ci accoglie una grande sala di forma rettangolare, così grande da sembrare una scuderia. E ci si perde nei 484 metri quadrati di pavimento calpestabile, gli oltre 900 metri quadrati di affreschi e alle pareti una lunga quadreria. Sono i ritratti dei primi 130 vescovi della Chiesa padovana e che si sono succeduti nel governo spirituale della città, quella “nube di testimoni” di cui parla san Paolo nella sua lettera agli Efesini mentre sul soffitto – a sigillo del nostro percorso – lo stemma di papa Clemente XIII (famiglia Rezzonico) che fu vescovo di Padova dal 1743 al 1758.
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