“Se l’arte non potesse rappresentare Cristo vorrebbe dire che il Verbo non si è incarnato”. Così il monaco Teodoro Studita, uno dei prodi difensori delle immagini sacre contro l’iconoclastia che imperversò nell’impero bizantino tra il VII e il IX secolo, difendeva la legittimità, il valore e il significato delle icone.
E visitando la raccolta-esposizione Icone di speranza, allestita in occasione del Giubileo dai Musei Vaticani e dal Dicastero per l’Evangelizzazione nella borrominiana Sacrestia della chiesa di Sant’Agnese in Agone, a Piazza di Spagna a Roma, per la cura sapiente di Anna Pizzamano e Pietro Beresh, affiora per primo il pensiero che questi antichi manufatti sono approdati a noi attraverso drammi storici di enorme rilevanza che ne hanno messo a repentaglio l’esistenza. Chi sosteneva la loro causa fu perseguitato, esiliato, ucciso; sempre in nome di un dovuto rispetto, dal sapore ebraico e musulmano, dell’assoluta trascendenza di Dio, della “incircoscrivibilità” della natura divina di Cristo. Che però, replicarono gli “iconoduli” alla fine vincenti, ha liberamente scelto di “circoscriversi” divinamente e umanamente in un corpo carnale.
I 18 pezzi presenti in mostra, parte della nutrita Collezione di icone dei Musei Vaticani oggi diretti da Barbara Jatta – figlia della valente iconografa e restauratrice di icone Maria Cristina Busiri Vici – non provengono direttamente da quei tumultuosi secoli, bensì sono successivi al disfacimento dell’impero bizantino che era stato la prosecuzione millenaria di quello romano e che nel 1453 dovette soccombere all’islam. Sono tutte icone “postbizantine”, realizzate nell’Oriente cristiano, perlopiù europeo e per la maggior parte pervenute in Vaticano come doni ai vari Papi.
In sintonia col tema giubilare del pellegrinaggio l’esposizione si apre con una Fuga in Egitto di scuola greco-veneta del XVII secolo: la Santa Famiglia che si mette in salvo dalla furia erodiana, con Maria che in groppa ad un asino allatta (o prova ad allattare, con gli sbalzi dev’essere stato difficile…) Gesù Bambino, mentre Giuseppe tiene la cavezza e guida il cammino, sullo sfondo un cielo tutto dorato, come vuole la tradizione orientale, sempre protesa a venerare con l’oro la maestà del Signore, anche nelle condizioni più umili e bisognose.
Ci sono poi icone da portare con sé, di piccole dimensioni, fatte per la devozione e la preghiera del pellegrino lungo il cammino o del fedele durante la giornata: un trittico da viaggio con Cristo Pantocratore e i santi Pietro e Olga, granduchessa di Kiev, grande promotrice del cristianesimo nella sua terra. Un oggetto raffinatissimo, realizzato all’inizio del 1900 dalla Maison Fabergé a San Pietroburgo e donato a Pio XI nel 1929 dai cattolici russi di rito bizantino presenti in Cina!
Di fine Ottocento, ma con datazione incerta, è anche l’icona con 144 immagini della Madonna con Bambino, uno straordinario repertorio iconografico mariano su tavola, donato nel 1993 a Giovanni Paolo II dall’allora premier libanese il musulmano Rafik Hariri, poi assassinato nel 2005.
Tema guida del Giubileo 2025 è la speranza e tra i traguardi più sperati da sempre, ma in particolare in questi tempi, c’è la pace; ecco dunque fianco a fianco due icone di nazioni sorelle ed oggi tra loro belligeranti: quella russa raffigura san Vladimir, gran principe di Kiev che, educato alla fede da sua nonna Olga, fu promotore nel 988 del battesimo nel fiume Dnepr (il “Giordano” della Antica Rus) dell’intero popolo di quelle terre. Per questo san Vladimir è detto Isoapostolo, uguale agli apostoli. L’icona ucraina rappresenta la Vergine Odigitria, la Madonna che indica il Dio Bambino; una tavola molto danneggiata, perché ai tempi dell’ateismo sovietico per evitare la distruzione fu utilizzata come ripiano di un armadio nel villaggio ucraino di Popeliv. Fu donata a Giovanni Paolo II in occasione del suo viaggio apostolico nel 2001. Entrambe le icone sono insieme monito che la guerra è atto sacrilego ma anche auspicio di pace e riconciliazione nell’abbraccio della comune fede in Cristo.
Tutti i pellegrini europei-orientali potranno contemplare le sacre immagini della terra patria, le radici religiose dei propri popoli, la maestria degli iconografi che le hanno realizzate, ma anche i visitatori (la mostra è a ingresso libero) d’altre provenienze potranno ammirare questi preziosi oggetti che non sono quadri, bensì canali aperti verso l’Aldilà, riflessi d’una Presenza da invocare, frammenti del Divino che ci salva.
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Icone di speranza è aperta fino al 16 febbraio 2025
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