“Il cinema ha perduto un genio”, annunciano poco dopo mezzogiorno del 31 ottobre 1993 le tv e le radio di ogni parte del mondo, quando vengono a sapere della morte di Federico Fellini, ricoverato al Policlinico Umberto I di Roma da diverse settimane, dove era entrato in coma dopo essere stato colpito da un ictus a Rimini il 3 agosto. Gli studi cinematografici dell’intero pianeta si fermano di colpo, osservando alcuni minuti di silenzio in onore del Maestro scomparso. Centinaia i messaggi di cordoglio inviati da registi, attori, produttori, scrittori, autorità politiche, gente comune.
Il giorno successivo la stampa internazionale fa a gara nel rendere omaggio all’immaginifico regista, con articoli in prima pagina e titoli a caratteri cubitali. Il quotidiano francese Liberation per tutti: “L’Italia perde il suo grande poeta”. La camera ardente viene allestita a Cinecittà, la sua “casa”, e una folla immensa rende omaggio alla salma in un silenzio assoluto, in cui risuonano solo le note di Nicola Piovani e Nino Rota, autori delle colonne sonore dei suoi film. Una mostra a lui dedicata, intitolata Fellini. Cinema è sogno è aperta fino al 2 luglio nella sede della Fondazione Magnani Rocca, a Mamiano di Traversetolo (Parma), in quella “villa delle meraviglie” – circondata da uno splendido parco popolato da variopinti pavoni – che ebbe come ospite proprio Nino Rota, che firmò le belle e struggenti musiche di capolavori come 8 e mezzo, Giulietta degli Spiriti, Roma, Amarcord.
“Andare a vedere un film di Fellini era come andare a sentire la Callas cantare o a vedere Laurence Olivier recitare o Nureyev ballare. I suoi film iniziarono persino a incorporare il suo nome nel titolo: Fellini Satyricon, Il Casanova di Federico Fellini”. L’ha scritto Martin Scorsese, tra i maggiori registi viventi, in un saggio di due anni fa sul Maestro romagnolo, considerato “l’ultimo incantesimo del cinema”. Fellini era “più di un regista”, perché “era molto più grande della sua stessa arte”. Il giudizio del cineasta americano, a sua volta definito da Fellini “un uomo che ama il cinema con passione profonda, contagiosa”, ci fa capire come il cinque volte premio Oscar (l’ultimo alla carriera, ritirato a Los Angeles il 28 marzo 1993, pochi mesi prima della scomparsa) incarnasse “un certo atteggiamento nei confronti del mondo”, un modo tutto suo, grottesco ma segnato da una magistrale leggerezza, di rappresentare la realtà attraverso la settima arte.
Così sorprendente e originale che è stato coniato un aggettivo ad hoc, “felliniano”, proprio per indicare il suo stile inconfondibile, le atmosfere surreali e la dimensione onirica che riusciva a creare. Ancora Scorsese: “Volevi descrivere l’atmosfera surreale di una cena, di un matrimonio, di un funerale, di una convention politica o, addirittura, della follia dell’intero pianeta? Tutto quello che dovevi fare era pronunciare la parola ‘felliniano’ e la gente sapeva esattamente che cosa intendevi”.
Ciò che colpiva di più il poeta Andrea Zanzotto del regista era “la continua creazione di qualcosa che è insieme magico e quotidiano”, mentre per Italo Calvino aveva sostituito il “cinema della distanza” con “il cinema della vicinanza assoluta”. Era un prodigioso orchestratore di immagini, visioni e ritmi narrativi, con cui descriveva sogni e conquiste dell’Italia del dopoguerra, ma intravedeva anche con ironia e malinconia l’avvicinarsi di un’inesorabile decadenza.
Convinto anticonformista, non si adattava alla mentalità emergente. Alcuni esempi? Per lui “l’uguaglianza fra uomo e donna è una bestemmia biologica”, perché la differenza crea una complementarità e l’universo femminile resta comunque un mistero, “un’immensa oscurità”. Non credeva che l’uso di stupefacenti potesse stimolare la creatività, semmai la inibisce. E si scagliava contro i “banditori degli effetti portentosi delle droghe”, come lo scrittore-psicologo Timothy Leary, “padrino” dell’Lsd, o il poeta della Beat Generation Allen Ginsberg, consumatore abituale di allucinogeni, giudicandoli “ingannatori e corruttori”: i giovani decidono di drogarsi “per ignoranza della vita, dei valori reali e profondi della vita, di quel dono misterioso che è la vita”.
Si professava apertamente cattolico. Affermava: “Mi pare un po’ troppo disinvolto definirsi laici, come fanno certi miei amici. Io non posso sfuggire al sacco amniotico del cattolicesimo. Come si fa a dire che non si è cattolici, come ci si può liberare da una visione delle cose che dura da duemila anni?”.
Una volta chiesero a Fellini se il cinema per lui è arte. Rispose: “Sì e no. È arte e nello stesso tempo circo, baraccone di saltimbanchi, viaggio a bordo di una specie di ‘nave dei folli’, avventura, illusione, miraggio”. E aggiungeva: “Il cinema è imparentato con la pittura per la luce. Il cuore di ogni cosa, sia per il cinema che per la pittura, è la luce”. La mostra alla Magnani-Rocca offre uno spaccato significativo dello stupefacente universo felliniano. Sono esposte le locandine originali di tutti i film, dal primo, Luci del varietà (1950, diretto con Alberto Lattuada) all’ultimo, La voce della Luna (1990, interpreti Roberto Benigni e Paolo Villaggio), accanto ai sontuosi costumi di scena indossati da attori come Marcello Mastroianni (Mandrake nel film Intervista) o Donald Sutherland (protagonista della pellicola Il Casanova di Federico Fellini).
Si possono anche ammirare i disegni del regista e rare fotografie d’epoca, con Fellini sul set mentre dà indicazioni su come girare una scena oppure accanto ai suoi attori (ancora Mastroianni, Anita Ekberg), con la moglie e compagna di una vita Giulietta Masina, con personaggi famosi che ha conosciuto (Andy Warhol). Dal 2020, ogni 20 gennaio (giorno della nascita, nel 1920) si celebra in suo onore la Giornata mondiale del cinema italiano. Per Dante Ferretti, tra i massimi scenografi a livello internazionale e suo stretto collaboratore, Fellini “è considerato nel mondo un genio alla stregua dei grandi artisti italiani del Rinascimento”.
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