Si sta concludendo la mostra di Edoardo Fraquelli, aperta lo scorso mese al Centro Culturale di Milano, e che anche questa volta ha suscitato, come accade sempre nelle sue mostre, interesse e commozione. Del resto Fraquelli ha una vicenda personale che non può non coinvolgere. Nato a Tremezzo nel 1933, ha sempre lavorato per intervalla insaniae e la sua ricerca è stata interrotta, anzi rotta e devastata, da un malessere psicologico che gli ha impedito per lunghi periodi di dipingere. Nel 1972 pubblica un libro di poesie che si intitola Per la certezza dell’esistere, ma di certezze ne ha sempre avute poche. Perché, del resto, si aspira alla certezza, se non perché non la si possiede?
Il suo percorso espressivo, è vero, non è stato privo di consensi. Quando nel 1958, a venticinque anni, Fraquelli si affaccia sulla scena artistica, di lui si interessa Giorgio Kaisserlian, uno dei critici allora più autorevoli. Il lavoro dell’artista si muoveva nell’ambito dell’informale, come si vede anche nelle prime opere in mostra. Dipingeva muraglie di colore, graffiate da segni disordinati. Il suo verde dominante, di intonazione naturalistica, faceva pensare a vegetazioni ostili, a foreste senza via d’uscita, in cui si poteva cogliere qualche analogia con Morlotti. “Mi rotolo nella materia come un insetto” dice Morlotti. E Fraquelli potrebbe ripetere le stesse parole, anche se in lui c’è piuttosto un senso di immobilità e di arresto, una materia che non accoglie ma respinge.
Negli anni sessanta l’artista è raggiunto dalle prime crisi, che si acuiranno nel decennio successivo fino a costringerlo in un ospedale psichiatrico. Solo nei primi anni ottanta riprende a dipingere, ricominciando un percorso che si era fermato bruscamente. Ci sono, nelle sue opere di questo periodo, segni che si annidano nella materia e sembra vogliano divincolarsene. Ora, però, la materia non è più un intrico oscuro. È una pasta vitrea che sembra aver catturato il sole e il caldo della terra. Informale, ancora? Certo, il lavoro di Fraquelli si può definire così per la fisionomia sempre densamente materica. La sua stagione informale, del resto, era stata interrotta, non superata. E, quando riprende a dipingere, qualcosa dell’esperienza precedente rimane, come in certe fiabe in cui il protagonista si risveglia immutato dopo un sonno di decenni.
Nelle sue composizioni affiora una geometria che non è un puro diagramma mentale, ma conserva densità e peso. Nella materia, però, c’è ora un senso di attesa. È come se Fraquelli volesse dirci: il peso della corporeità di cui siamo fatti non è soltanto una zavorra, ma una possibilità di vita. Come accade nel tuorlo e nell’albume dell’uovo non ancora aggallati.
È appunto questo senso di germinalità che ci attrae nella sua opera. È come se l’artista avesse compiuto un viaggio nel laboratorio della vita e avesse colto il segreto delle cellule, del seme, del nucleo generante, quando tutto è immobile e silenzioso, un attimo prima che quelle cellule si mettano in moto. Del resto quegli anni sono davvero, per Fraquelli, momenti di rinascita. L’uscita dal letargo della malattia e, più ancora, l’incontro nei tardi anni settanta con un appassionato d’arte come Aldo Consonni, che diventa non solo suo amico, ma il suo mecenate e la sua guida – e che è stato il promotore della mostra realizzata al Centro Culturale di Milano, mettendo a disposizione la sua ricca collezione di opere – gli infondono una nuova energia. Forse hanno contato anche le circostanze storiche del decennio, con quell’idea di benessere che diffondevano (un benessere effimero, tuttavia: lo slogan pubblicitario “Milano da bere” nasce nel 1985, ma un anno dopo si assiste al disastro di Chernobyl e tre anni prima era stato coniato ufficialmente il termine “Aids”).
Quello che vediamo, insomma, nei quadri di Fraquelli è un senso di potenzialità, una vita in attesa di vivere: una geometria ferma, straniata, eppure destinata ad animarsi. I suoi gialli (spesso gialli nel senso etimologico del termine: da “galbus”, che è un verde pallido), i suoi azzurri e i suoi rosa, danno l’impressione che qualcosa debba accadere. E che ci sia, sì, ci sia la certezza dell’esistere.
Nel 1995 l’artista scompare. Forse presentiva che quella stagione luminosa non sarebbe stata lunga e la luce intensa che dipinge lo annuncia. Come il giallo intenso delle foglie d’autunno annuncia l’inverno.
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