“Il mago di questa arte” lo ha chiamato Davide Rondoni, presentando l’“estremo lavoro” di Mario Giacomelli: il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello di cui è presidente “non sta solo rendendo un giusto omaggio a uno degli indiscutibili grandi della fotografia italiana ed europea, ma sta seguendo le tracce del ‘mago’ che viene dalla terra di Leopardi”. Giacomelli “scrive con la luce e il buio, con i lumi e le buità, fa qualcosa che è luogo e teatro, memoria e dissolvenza di sé, recupero e invenzione”. Appare oggi quasi come “uno spettro”, un indagatore sporto sull’abisso del mistero dell’immagine: “Le sue tracce, le sue apparenti divagazioni tra segni, sogni, oggetti, maschere portano dritte al cuore” di questa “arte sfuggente chiamata fotografia”.
A cosa serve, si chiede il poeta, questa camera che registra prospettive, questa forma di scrittura nuova, di cui da meno di duecento anni studiamo la calligrafia? A provvisoriamente “risolvere ricordi” o non piuttosto a “consegnarli al loro mistero” proprio “mostrandoli”?
È certamente più quest’ultima la cifra della lunga, solitaria, potente avventura espressiva di Giacomelli, autore parimenti attraversato, scosso dalle furie di Calliope: “Parrebbe quasi che scrittura e luce, i due termini custoditi ma quasi nascosti nella parola che viene usata per indicare banalmente quest’arte ritornino a tremare” nota Rondoni. Giacomelli non mira a comporre “belle o interessanti” inquadrature, il mago “fa altro: mette in scena un intero teatro umano”, teatro d’ombre, come quelle cinesi, che ci riavvicina “alla radice “ph” dell’antico verbo greco phainomai, espressione che tiene in un’unica fonte l’apparire di fenomeno, fantasma, fantasia e di phòs, luce. Giacomelli ci ha regalato con questo suo lavoro un antico e futuro viaggio”.
Proprio così, “mago”, lo chiama anche la nipote Katiuscia Biondi Giacomelli, che dirige l’Archivio che raccoglie la sua opera dal 1954 al 2000, mentre passa in rassegna soddisfatta la stanza che ospita al primo piano del Mufoco una vasta raccolta di provini del fotografo di Senigallia, una vera “camera obscura” da cui lei ha tratto, con intelligenza e cura, una mostra assolutamente da visitare, ospitata da questo grande museo milanese oltreconfine che la Città, che certamente va annoverata tra i poli principali della fotografia mondiale, non si è mai saputa/voluta dare.
“Se c’è una serie – dice Katiuscia – che più coraggiosamente ci svela il mondo immaginifico di Giacomelli è proprio Questo ricordo lo vorrei raccontare, l’ultima della sua produzione, composta nel 2000, poco prima della sua morte. È il suo testamento. Penso che il Mufoco sia il luogo giusto per presentarla. Un luogo di serietà, di studio”. Il luogo giusto per esporre, in maniera persino un po’ impudica, questo lascito della sua visione e dei suoi entusiasmi: “Provini e negativi sono il backstage del suo lavoro”, che ci appare qui soprattutto come un complesso rituale, di cui possiamo osservare le mosse e le logiche che precedono la stampa finale. “Per Giacomelli la fotografia è la scatola della sua memoria, ma anche della memoria del genere umano. Ed è l’occasione che abbiamo per entrare in un rapporto vero con il mondo”.
Essa, questa mostra lo rivela pienamente, non è nulla di spontaneo né grazioso, è invece messinscena drammatica, provocazione, ferita, inquietudine. E poi anche “mise en abîme” che mentre propone uno scorcio provvisorio del mondo riflette anche sempre, all’infinito, la fuga misteriosa del suo continuo rispecchiarsi e rappresentarsi in immagini.
È forse qui la chiave di quella “magia” che Giacomelli esercita ancora su di noi, sul nostro inconscio, verrebbe da dire, in direzione ostinata e contraria al “realismo ingenuo” in cui siamo stati educati. Una strada impervia e spesso solitaria, che per lui è stata “quasi un’ossessione”: “Non si è mai ripetuto, ha sempre voluto, fino alla fine, sperimentare” dice Katiuscia. “Diceva di riuscire a vedere le cose veramente solo quando le aveva fotografate: ‘Il profumo dell’erba tagliata l’ho sentito solo quando mi sono trovato dietro la macchina’”.
Giacomelli, che era nato nel 1925 (la mostra in qualche modo anticipa il suo centenario dell’anno prossimo) “è un artista del nuovo millennio, un fotografo di oggi, non degli anni 50”, dice la nipote.
Questo ricordo lo vorrei raccontare (aperta fino al 19 maggio) è accompagnata dall’uscita del bel volume omonimo di Skinnerboox, ideato dall’editore Milo Montelli, curatore della mostra insieme a Katiuscia. Al Mufoco sono esposte 66 stampe vintage e oltre 400 provini. E ancora, riproduzioni di negativi, manoscritti, registrazioni audio e video, in particolare uno amatoriale, girato dal genero dell’artista nel 1997, ci fa vedere il fotografo all’opera nei casolari abbandonati in quella campagna marchigiana che per una vita ha fatto da tavolozza al suo aspro di-segnare con i sali d’argento, mentre “inscena”, con una fotocamera corposa e antidiluviana, i primi scatti di questa serie.
Dai provini di stampa, dal loro confronto con i negativi in bacheca, dalle parole appuntate sui foglietti manoscritti, nella sua gestualità il lavoro di Giacomelli si rivela come una vera performance, in cui tutto lo zoo di animali finti di cui si circonda (cani, uccelli, pupazzi) serve a ribaltare le nostre sicurezze visive: “Mentre gli altri distruggono, io so di avere la capacità di dare vita. Certamente tutto ciò fa parte del sogno, sono discorsi insensati. Però è bello accorgersi che nella cattiveria del mondo si può provare a dar vita a ciò che non potrebbe mai averne una, perché nasce inanimato, privo della carne, del sangue”, come questi animali impagliati: “Insomma adesso preferisco questo mondo falso, perché quello vero non mi si addice. Quindi ho invertito le cose: il mondo vero è quello che io fotografo; quello falso è quello che invece gli altri vivono nella vita di ogni giorno”.
L’opera che ci accoglie al secondo piano del Mufoco è un teatro senza presenze umane, a parte lui stesso nudo, fatto di muri crepati, animali finti, maschere, manichini, panni stesi, dove tutto si fa simbolo. “Le opere di Giacomelli – conclude Katiuscia – sono pezzi di lui. Faceva di tutto per esorcizzare la Morte, e quando si è trovato di fronte ad essa ha lasciato una traccia della sua presenza viva e l’ha chiamata ‘Questo ricordo lo vorrei raccontare’ proprio per continuare a raccontare, ad infinitum”.
Gli spazi rinnovati nella secentesca Villa Ghirlanda ospitano oggi un Mufoco più accogliente e accessibile: una installazione immersiva all’ingresso permette ora di navigare nelle collezioni del museo, oltre 2 milioni di opere di un migliaio di artisti italiani e internazionali, raccolte grazie al lungo e prezioso lavoro negli anni di Roberta Valtorta. E la festa per i suoi vent’anni è accompagnata da una notizia importante, “un grande regalo” – ha spiegato il sindaco di Cinisello Giacomo Ghilardi: un accordo di valorizzazione del suo patrimonio con il ministero della Cultura e la Città metropolitana di Milano.
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