Si è aperta il 5 ottobre scorso, al Palazzo reale di Milano, la Mostra Morandi 1890-1964 ideata e curata da Maria Cristina Bandera, con circa 120 opere che ripercorrono l’intero lavoro dell’artista bolognese (cinquant’anni di attività, dal 1913 al 1963). La pittura di Morandi ci costringe a fare i conti con il “vedere” in senso lato, con l’esperienza della percezione delle cose. La passione e l’insistenza dello sguardo di Morandi sono come una domanda fatta all’oggetto stesso perché si manifesti nella sua totalità, una continua apertura, pieno di razionalità e di tensione morale, alla novità che l’oggetto può essere in ogni momento.
Ma che cos’è la “totalità” di un oggetto, se ammettiamo che la sua materialità fisica non lo definisce? Che cos’altro ancora manca? Arnaldo Beccaria, autore della prima monografia sull’artista, racconta una delle sue ultime visite fatte al maestro bolognese nel 1964: “(Morandi) mi parla di Seurat, dei Bagnanti, come di un quadro d’importanza capitale. Mi parla con grande ammirazione di Rousseau, il Doganiere. Altro che naïf, mi dice, altro che popolare; c’è in lui un mistero che non c’è in nessun altro pittore moderno. È un caso unico nella storia dell’arte. E insiste su questa parola, mistero, mi dice che l’Arte è soprattutto mistero. ‘Ma già’ soggiunge dopo un attimo di silenzio, come parlando a sé stesso ‘tutto è mistero: noi stessi, le cose più semplici, le più infime’”.
Vedere le opere di Morandi, quindi, è una occasione per intuire che tutto è mistero e anche le cose più semplici e infime possono rivelare un “oltre” che attende di essere intuito. A condizione che gli occhi, sollecitati dall’emozione che a sua volta è accesa dalla bellezza, si aprano al mistero della totalità. Le nature morte di Morandi sono come dei paesaggi, nel senso che contengono una ricchezza tale di sfumature, di colori, di toni, di luminosità, di spazialità, e nello stesso tempo costituiscono sempre un clima preciso, un carattere proprio, un timbro personale che diventano appunto dei paesaggi, dei mondi nei quali inoltrarsi. Davanti a un suo dipinto si fa esperienza di unità dell’oggetto: unità di forma data dal colore, dalla luce, dallo spazio; è proprio una impressione di solidità, di compattezza, quasi la perentorietà di esserci. Gli oggetti dipinti da Morandi esprimono tutta la voglia di “esserci”, così che ci partecipano la certezza che la realtà non è un sogno, non è un inganno, è piuttosto l’emergere di qualcosa di concreto che ha però le radici in un “oltre” invisibile.
Perché questa mostra proprio a Milano? Ce lo dice il direttore di Palazzo Reale di Milano Domenico Piraina: “Intenso e determinante, per innumerevoli aspetti, è stato il rapporto di Giorgio Morandi con Milano fin dal 1930, quando il Comune di Milano, primo ente pubblico in assoluto, acquistò alla XVII Biennale di Venezia una Natura morta, ora al Museo del Novecento. Era ancora da venire il primo riconoscimento da parte della critica ufficiale, quello di Roberto Longhi nel 1934, giacché, prima di allora, si erano occupati del pittore di via Fondazza artisti e letterati. Non si può tacere, inoltre, dell’opera di promozione svolta da numerose gallerie milanesi, in primis quella del Milione di Gino e Peppino Ghiringhelli”. A metà del percorso espositivo si può vedere una suggestiva riproduzione della camera-studio di Morandi di via Fondazza a Bologna, realizzata tramite installazione video e frammenti audio di un’intervista radiofonica condotta da Peppino Mangravite nel 1955.
In definitiva, Morandi 1890-1964 attraverso le sue 34 sezioni ci fa vedere l’intero percorso artistico del pittore. Occasione da non perdere per immergersi nella poetica morandiana, fatta di delicatezza, raffinatezza, sensibilità e soprattutto di sguardo appassionato alla realtà, percepita nella sua totalità, anche quando ci si trova di fronte alle cose più semplici e infime.
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