È mancato ieri, alle ore 11, Giovanni Chiaramonte, grande fotografo italiano, protagonista della fotografia nazionale e internazionale, siciliano di Gela e milanese in tutto, storico della fotografia e dell’architettura.
Aveva appena curato e compiuto due mostre, una aperta proprio nel giorno della sua partenza, all’ADI Design Museo “Omaggio della Fotografia ai maestri del Compasso d’oro”, l’altra una retrospettiva per il grande amico di una vita Luigi Ghirri, che si aprirà al Centro Culturale di Milano il 26 ottobre, “Nostalgia del futuro. L’immagine necessaria”, simbolicamente l’ultimo segno del suo percorso nella fotografia.
Queste due ultime creature fanno un’improvvisa sintesi, totalmente provvisoria, di un grande artista fotografo, che nell’architettura e nella cura delle funzioni ed estetica degli oggetti ha visto rappresentarsi il senso dell’abitare e del vivere, del singolo e della comunità e nella fotografia – sua vita, ispirazione, professione – la vocazione di una disciplina e arte definita dallo stupore per il reale, racconto del mondo, mezzo indispensabile per la cultura.
Una persona di rara umanità e forza, che negli ultimi anni e mesi ha colpito chiunque lo incontrasse per la letizia nuova e misteriosa che manifestava, come un fiore che veniva a ornare foglie e radici sempre verdi; insieme ad una vitalità indomabile, piena di idee e progetti, in controtendenza al male che da sette anni lo rincorreva.
Ho ricevuto tutto, diceva, ma sono lieto per aver conosciuto Cristo nella Chiesa e anche nella malattia c’è come una Sua carezza, riconoscibile, nel dolore.
Padre e artista, editore con Punto e Virgola fondata insieme a Luigi Ghirri alla Agenzia Ultreya, docente e intellettuale.
Una grande famiglia la sua, con la moglie Irene e i figli; una famiglia allargata di studenti di fotografia, i nuovi insieme a quelli cresciuti e sempre rimasti, che rappresentano un esempio di scuola permanente (e controcorrente), che ha superato i confini delle strutture, tra l’abitazione e lo studio, l’università – il suo Iulm dove teneva un affollato corso di storia della fotografia – e le diverse sedi cui destinava grande e antico senso di collaborazione, la Triennale, Lotus con Pierluigi Nicolin, gli enti di Milano e del Paese, che hanno visto la sua presenza e collaborazione fattiva e accorata, rispetto a un mondo frammentato col quale ingaggiava una battaglia ansiosa e amicale, offrendo la sua opera fotografica anzitutto, nel segno di un’antropologia estetica e vitale, per una cultura vera, semplice e occidentale, come amava ricordare, imperniata sull’uomo e il suo destino, poggiata sulla memoria visiva delle civiltà e la fucina della contemporaneità.
Aveva radici nella cultura ebraica e fotografica americana, con riconoscimenti e collaborazioni, con la Aperture di New York, come quella con Teju Cole nata con l’ultima sua personale “Realismo infinito” ad Astino.
Un fotografo per cui l’occhio della fede era l’occhio di ciascun uomo che guarda e vede, non un altro strumento, fisico o ottico, culturale o visionario, ma cambiato nella struttura profonda, nel saper rendere grazie al rivelato e visibile, nell’amare l’apparenza nella sua realtà seconda.
Stretto al “suo” movimento, quello nato da don Giussani, con il quale ha sempre saputo tenere un dialogo profondo, sia seguendo l’evento sorgivo del metodo e del pensiero, con quella “partenza” estetica e amore alla bellezza del sacerdote incontrato al Liceo Berchet e continuato negli anni, fino alle sue forme ed espressioni ultime cui dedicava energia e disponibilità, dai primi Meeting di Rimini alle ultime due lezioni coi liceali degli Istituti don Gnocchi di Carate Brianza e Fondazione Sacro Cuore.
Una grande perdita, ma un lascito che andrà sviluppato, già ricco di generazione, evidente fin da adesso.
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