Uno dei massimi pittori spagnoli è tornato a Milano. Dopo la grande mostra del 2010 Goya e il mondo moderno, Palazzo Reale ospita fino al 3 marzo Goya. La ribellione della ragione, un percorso artistico e umano con settanta opere esposte, con al centro la celebre serie di incisioni Caprichos, che segnò una svolta nella sua vita.



Negli anni finali del secolo dei lumi, il Settecento, Francisco José de Goya y Lucentes (1746-1828) lavorò a una serie di incisioni (ottanta tavole) che chiamò Caprichos (Capricci): disegni popolati da raffigurazioni orribili e inquietanti. Creazioni, tra l’ironico e il grottesco, che secondo l’autore avrebbero dovuto mostrare gli eccessi di un animo “oscurato e confuso dalla mancanza di rischiaramento e surriscaldato dalla sfrenatezza delle passioni”. Insomma, una denuncia esplicita dei peggiori vizi della società spagnola di quell’epoca travagliata, e di tutta l’intera umanità.



La più celebre di queste incisioni è la tavola numero 43, un’acquaforte e acquatinta realizzata nel 1797 che raffigura un uomo – lo stesso Goya – con il capo chino su una scrivania su cui si intravedono dei fogli e una penna, gli strumenti per scrivere. Si è addormentato in un sonno agitato, abitato da creature notturne (che si vedono sullo sfondo): pipistrelli, civette e, in basso a destra, una lince dallo sguardo penetrante. Sulla scrivania la scritta El sueño de la razón produce monstruos, che è stata sempre tradotta ed è universalmente nota come Il sonno della ragione genera mostri. A significare – sull’onda degli ideali illuministi allora dominanti – che quando la ragione si addormenta o ad essa si rinuncia, ecco che compaiono i mostri. E i “mostri” sono reazioni violente e incontrollabili, appunto irrazionali, capaci di vanificare qualsiasi ordine costituito, e che suscitano quel pensiero dogmatico che osteggia il cambiamento e non fa progredire la società. Un’immagine così interpretata si è imposta facilmente come iconica del pensiero illuminista.



In realtà la questione è più complessa, perché in Spagna, in quegli anni, si stava diffondendo anche tra i più convinti sostenitori della Rivoluzione francese un clima di malcontento: la ghigliottina seminava morte, si venerava la Dea Ragione e Robespierre organizzava processioni in onore dell’Essere Supremo: tutto ciò strideva con i valori della tradizione, innanzitutto religiosa, ancora vivi non solo negli strati più bassi del popolo, ma anche tra gli intellettuali. Goya era sicuramente critico verso la Chiesa, il suo potere e i suoi agi, ma non era ateo o irreligioso. Quando nella sua vita, dopo il 1792 e la malattia inspiegabile che lo colpisce, avviene la svolta verso una pittura più intima, personale e oscura, si sente ancora di affermare: “Quale profondo e impenetrabile arcano si cela nell’imitazione della natura divina, senza la quale non vi è nulla di buono, non solo nella Pittura (la cui unica funzione è la sua imitazione puntuale!), ma in tutte le arti!”.

L’esposizione di Palazzo Reale non è antologica ma “ideologica”, segue cioè il percorso creativo di Goya dall’interno, presentando sia la fase pubblica e della committenza del “pittore di corte”, sia quella successiva, più libera nelle sue modalità espressive e più attenta a ciò che c’e nella mente e nel cuore di ogni essere umano. La mostra è divisa in sette sezioni, dall’apprendistato alla feroce critica della guerra fino all’ampliamento dell’immaginazione (ne fanno parte i Caprichos). Manca una sezione dedicata esplicitamente al “senso religioso” dell’artista di Saragozza – scelta che sarebbe stata coraggiosa ma avrebbe contraddetto lo stereotipo di pittore illuminista, razionalista, oggi diremmo laico –, ma sono esposti alcuni quadri significativi, come l’olio su tela del 1797-1799 La cattura di Cristo, proveniente dal Prado, i due dipinti del 1788 dedicati a San Francesco Borgia o la bellissima raffigurazione della Vergine Maria bambina con i genitori sant’Anna e san Gioacchino del 1774. C’è anche, dipinto nel 1824, quattro anni prima della morte, l’intenso ritratto dell’amico canonico don José Duaso y Latre, esempio di virtù civiche, che accolse Goya e altri liberali dopo la restaurazione dell’assolutismo. L’artista non identificò mai la Chiesa con l’Inquisizione.

Tornando alle preoccupazioni che stava suscitando l’evolversi della Rivoluzione francese (che saranno poi confermate quando Napoleone invaderà la Spagna), c’è l’ipotesi che le tenebrose visioni dei Capricci, come pure buona parte delle opere appartenenti alla sofferta maturità artistica di Goya, in realtà potrebbero esprimere un grido d’accusa verso quell’illuminismo spagnolo che, facendo propri i valori rivoluzionari, stava trasformando la penisola iberica in un luogo di cruente repressioni. Così il “sonno della ragione” andrebbe mutato in “sogno della ragione”: il sogno di imporre la Ragione al mondo (come hanno tentato di fare le armate rivoluzionarie), il sogno del trionfo di una Ragione infallibile, implacabile, una Ragione illuminista come ordine e metodo, una Ragione tecnica e scientifica, una Ragion di Stato cui sottomettersi e che è sfociata nel Terrore. Tesi plausibile, anche se censurata, perché il termine  sueño in spagnolo – come pure nel latino somnium – può significare tanto “sonno” quanto “sogno”. E c’è il precedente letterario del capolavoro di Calderon de la Barca, La vida es sueño, appunto “La vita è sogno”.

Ma Pascal suggeriva prudenza, quando invitava ad evitare due eccessi. Il primo, “escludere la ragione”, il secondo “non ammettere che la ragione”. C’è una via di mezzo? Il titolo della mostra milanese – Goya. La ribellione della ragione – ci fa ulteriormente riflettere. Perché sembra ancora far capolino il concetto di “ragione” illuminista, scientista, che si oppone all’ancien regime, alla tradizione, a una società dove è ancora centrale l’orizzonte religioso: una “ribellione” contro l’oscurantismo, quindi, che però in Goya va a parare proprio in una pittura oscura, buia, drammatica, angosciata (si pensi alla cruda serie di incisioni “I disastri della guerra”).

Allora occorre cambiare prospettiva. C’è una “ragione” diversa da quella illuminista che misura, giudica e condanna, ed è ancora presente tra noi. Occorre una ragione più ampia, che allarga lo sguardo a tutte le dimensioni dell’umano senza escluderne nessuna: psicologica, emotiva, sentimentale, spirituale. Che guardi alla bellezza, alla salute, alla giovinezza, ai momenti di gioia e serenità. Ma guardi anche alla fatica, ai tormenti dell’anima, alla malattia, alla sofferenza, alla vecchiaia e all’approssimarsi della fine dell’esistenza terrena. Questo ha voluto rappresentare Goya.

Per lui l’arte, passata l’epoca degli orpelli e dei decori, era “ricerca della verità”, scopo dell’arte “cogliere la verità”. Questo ci fa vedere, con i suoi impeccabili ritratti e le sue scene di vita (presenti in mostra sei simpatiche tele degli anni 1777-1785 dedicate ai giochi dei bambini), ma anche coi suoi fantasmi e i suoi personaggi grotteschi. Non ci impone nulla, non pretende di insegnarci nulla. Ci mostra e basta. E dopo aver sognato mostri come lui, possiamo risvegliarci anche noi con una consapevolezza diversa. Meglio allora parlare di “ribellione della verità”. E dopo Goya l’arte è cambiata per sempre.

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