“Io non rendo giustizia all’opera d’arte se la ‘gusto’, ma se rivivo l’incontro dell’artista creatore con l’oggetto”. Lo scriveva Romano Guardini nel testo di una famosa conferenza tenuta a Stoccarda nel 1947. È una constatazione molto vera che vale per l’arte del passato come per quella a noi contemporanea: per capire la bellezza di un’opera non basta il gridolino di meraviglia che spesso ci scappa davanti ad un capolavoro. Bisogna tentare un processo di immedesimazione con il “qui ed ora” dell’artista che l’ha realizzato. L’arte è certamente terreno privilegiato per l’esperienza della meraviglia, ma il primo a sperimentarla è infatti l’artista stesso. È nel momento dell’incontro con l’oggetto (o anche con l’idea), come scrive Guardini, che accade qualcosa di inatteso: di inatteso per chi l’ha realizzata. È quell’attimo, che possiamo inseguire con l’immaginazione, in cui “lo sguardo palpita”.
Quando mi è stato chiesto di stabilire un percorso per fare interagire le due parole chiave, meraviglia e sublime, del titolo del Meeting 2020 con l’arte contemporanea, obiettivamente mi sono spaventato. L’arte di oggi ha infatti un tasso di problematicità e di negatività così alto da rendere a prima vista arduo rintracciare segni di meraviglia e di sublime. Ma come suggerisce Guardini, per capire la verità di un’opera si deve andare oltre l’impressione dettata dal nostro gusto: e questo vale per il passato come per l’oggi. Sarebbe anche abbastanza semplice, del resto, rintracciare nei percorsi di tanti artisti di oggi una tensione verso obiettivi che ci riempiono di stupore, per l’arditezza e anche per la capacità di coinvolgimento: tutti abbiamo ancora negli occhi il meraviglioso disegno delle passerelle arancioni che Christo ha disegnato sulle acque del lago d’Iseo nel 2016. Eppure il cuore della meraviglia non sta nell’effetto generato dall’opera d’arte, quanto nella sua radice.
È una radice misteriosa, che attinge in territori che gli artisti stessi non possiedono e che quindi non possono governare con la semplice arma della propria abilità. C’è un’avventura che in questo senso è straordinariamente emblematica: è quella di Gerhard Richter, certamente uno dei più grandi artisti del nostro tempo. Nato a Dresda nel 1932, Richter ha attraversato sia il nazismo che il comunismo, prima di passare ad Ovest nel 1961: ed è qui che, nelle condizioni di massima libertà e pur con un bagaglio segnato da notevoli successi (ovviamente all’insegna del realismo sovietico) si è trovato a sperimentare la radicalità di un azzeramento. È un’esperienza che lui stesso ha raccontato in tanti testi ed interviste e che è diventata anche soggetto di un film uscito nel 2018 (Opera senza autore, dello stesso regista delle Vite degli altri). È stata l’esperienza di quella che lui chiama la propria “incapacità”, davanti alle tele bianche negli stanzoni dell’Accademia di Düsseldorf, a generare un nuovo “inizio”.
Lo spunto della ripartenza sono state delle foto amatoriali, spesso di famiglia, che lui ha “seguito” nella loro oggettività. “Bisogna fare che qualcosa accada piuttosto che crearla”, ha detto Richter. Ed è facile connettere questo momento in cui “qualcosa accade” con l’attimo evocato da Guardini, dell’incontro dell’artista con l’oggetto. È un’esperienza di meraviglia da cui è scaturita una delle più straordinarie avventure artistiche del nostro tempo, capace di declinare in profondità piano personale e piano storico, con un alfabeto pittorico fuori da ogni schema e da ogni ideologia artistica: “Essere più oggettivo possibile mi legittimava a dipingere, dal momento che se eri oggettivo facevi cose necessarie, illuminanti. Dipingere era in antitesi con l’essere ideologici”.