Sarà visitabile fino alla prima settimana di luglio al Museo delle Culture di Milano una delle mostre evento di questa stagione artistica che ha dovuto tenere conto, in sede di programmazione, ancora dei rischi pandemici, senza peraltro aspettarsi le nuove scosse dai conflitti armati. Eppure, una congiuntura internazionale così irrisolta sembra fare da appropriata cornice a Henri Cartier-Bresson. Cina 1948-1949/1958, due strepitosi taccuini per immagini su alcuni peccati originali della superpotenza in sella al tempo nostro.
Cominciamo con un profilo del fotografo: una gioventù nomadica, tra viaggi esotici e una famiglia benestante, ma fondamentalmente di provincia. Una curiosità intellettuale profondissima e uno stile di vita che, almeno all’inizio, lo avvicina al simbolismo francese: la pittura e il cinema ancor prima della macchina fotografica. Il simbolismo è una grande palestra per Cartier-Bresson (1908-2004): lo educa a cogliere il paradosso esplicito e il significato implicito all’interno delle immagini. I simbolisti non riescono a egemonizzare un immaginario collettivo: nell’Europa degli anni Trenta albergano sensibilità, per così dire, molto meno pluraliste e raffinate, che trattano gli annoiati di Parigi e dintorni come “arte degenerata”.
Quando tuttavia Cartier-Bresson inizia a lavorare il suo genio è indiscutibile; si direbbe che è il suo occhio a selezionare la rilevanza dell’oggetto posto sotto il mirino: per il tramite di questa attenzione, l’oggetto fotografato si fa soggetto in movimento, colto a un’imprevedibile spontaneità rivelatrice. E questo spiega bene due cose. Dimostra perché per il fotografo tenere separate le categorie del simbolismo e dell’umanesimo è un’operazione tutto sommato fittizia: mano a mano che tecnica e approccio si perfezionano, il guizzo che cattura l’immagine memorabile inizia a raccontarla con tracce di empatia e calore, non certo di fredda distanza o disquisizione priva di carne e contenuto. E, in secondo luogo, questo metodo di lavoro dà conto di perché alcuni dei viaggi più importanti e delle foto più riuscite di Cartier-Bresson abbiano origine in posti apparentemente anonimi, qualunque, distanti, fungibili, non esotici, non memorabili, non sfarzosi. L’elevazione viene portata esattamente da quel dono di catturare l’attimo che resta in pellicola. Non a caso gli piaceva l’Italia: quel carosello senza sosta di immagini piccole e grandi che raccontano radici palpitanti, desolazioni, allegrie, discontinuità di paesaggio.
E l’Italia ricambia, se Milano in meno di un ventennio ha dedicato almeno tre begli allestimenti al Nostro, e se le sue immagini italiane sono tra quelle meglio fissate al poco di senso collettivo che è rimasto a tempi talmente ingombri di brutte foto da non avere quasi più voglia di memoria.
Ora, la mostra. Si tratta di immagini di due grandi viaggi in Cina: uno abbastanza disorganizzato, altalenante, con propaggini di esperienze fortuite qua e là, voglia di rientri e voglia di ripartenze; l’altro, più articolato, a un decennio di distanza, a una fama maggiore, e persino con guida e accompagnatore. Il grande miracolo che riesce a Cartier-Bresson è che le sue fotografie abbattono completamente il deficit ambientale che separerebbe la narrativa tra i due momenti: precarietà, entusiasmo ed esplorazione nella prima forchetta; istituzione, rappresentanza e industrializzazione nella seconda. Nossignori: le immagini tutte si rendono a loro stesse, come l’attimo prima che lo sguardo del fotografo le censisse e imprimesse. Raccontano la Cina che passa da un vastissimo, enorme, sottobosco rurale, smisurato, nei chilometri e negli abitanti, a una corsa nell’industria di base forse strategica per il “balzo in avanti” della sua economia, ma tramortente per tutto ciò che l’aveva preceduta.
Vediamo cucinini improvvisati, operai stravolti e sfiancati, impianti meccanici che in grigi pomeriggi qualunque prendono vita come cavalieri di mostruosa consistenza calpestando, in nome dei manifesti, dei proclami, delle idealità, dei governi e dei funzionari, ogni cosa capiti loro incontro. E ci sono abitudini popolari che non si riescono a sconfiggere e che si impastano, ormai soggiogate, ai tempi nuovi. Periodici, giornali, donne graziosamente colte nell’intimità domestica non del talamo ma del governare la casa, stazioni, bambini in fila, segregazione e liberazione, trasferimento coattivo e perdita di innocenza. Ed è uno sguardo sempre caldo, mai sentenzioso, col diario in mano, energico, sostanziale. In altre parole: lo sguardo che scruta con tanta ragione da sapere mostrare il re nudo persino quando la corona addosso gliela mettono sia gli ufficialmente buoni sia gli ufficialmente cattivi.
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“Henri Cartier-Bresson. Cina 1948-1949/1958”. Mudec – Museo delle Culture, via Tortona 56, Milano. Fino al 3 luglio 2022
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