Ammirare un suo dipinto è come perdersi tra le melodie di Čajkovskij: mina nel profondo la nostra certezza che la parola sia indispensabile. Che la trasmissione di un sentimento tanto profondo quanto universale passi inesorabilmente dall’utilizzo del linguaggio. Edward Hopper (1882–1957), infatti, di parole non ne aveva bisogno. Sapeva quanto potessero risultare salvifiche e al tempo stesso traditrici, e quanto paradossale fosse la loro essenza: capaci di varcare infiniti orizzonti in poche sillabe e ugualmente inadeguate, talvolta, a riempire i vuoti dell’anima. D’altronde, affermava l’artista originario di Nyack, se le parole fossero state abbastanza non avrebbe certamente dipinto. E proprio a questa considerazione bisogna affidarsi se si vuole, anche solo in maniera preliminare, avere qualche chance di avvicinarsi al suo mondo. Un mondo fatto di pennellate che sono un inno e una condanna al silenzio, una mistificazione della nostra sconfinata devozione verso la verbalità, che ci rende vulnerabili di fronte all’incombere dell’assenza.



È stato sottolineato più volte quanto Hopper sia stato abile nell’immortalare la solitudine americana: quell’amara consapevolezza di un sogno sgretolato, lo sprofondo di un popolo che si era illuso inseguendo gli scintillanti miraggi offerti dal benessere degli anni 20 e annichilito dalla crisi di Wall Street, la marginalità e l’alienazione prodotte dalla frenesia di un tempo sempre più compresso e inumano. Ma i quadri di Hopper, come tutte le opere partorite da una genialità fuori dagli schemi, rifiutano di sottomettersi a questa asfittica categorizzazione e assurgono, piuttosto, ad affreschi raffiguranti un’intera umanità messa di fronte ai suoi parossismi e ai suoi rimorsi. Sono frammenti di vita disincastonati dal confuso mosaico della Storia, microcosmi autentici e sommessi contenuti in una società dall’indole distruttiva. È una scommessa rischiosa ma necessaria, quella che l’artista statunitense ci impone di considerare, un percorso metafisico che scardina le promesse dell’età del progresso e ci proietta in uno scenario alternativo dove le risposte appaiono tutt’altro che scontate.



Parrebbe semplice, infatti, attribuire ad Hopper l’inquieta messa in scena di momenti accomunati da un cupo senso di incomunicabilità: basterebbe incrociare lo sguardo con la donna che in “Morning Sun” (1952) tiene le proprie gambe vicino al petto, mentre la sua attenzione sembra volare lontano, oltre la finestra che si apre sulla sua stanza, aspettando una compagnia, un’epifania, che non sia appena il sole che le bacia la fronte; basterebbe sedersi accanto all’uomo voltato di spalle, pronto ad ingerire l’ennesimo bicchiere della sua interminabile nottata, nascosto sotto il proprio cappello, sul bancone che sta al centro di “Nighthawks” (1942); o ancora, interporsi alle due figure che si guardano senza avvicinarsi, e domandarsi il perché di quella distanza, in “Sunlight in a Cafeteria” (1958). Eppure, nel dipanarsi di queste ingombranti attese, sotterranea rispetto all’immobilismo che sembra dominare, si respira una sensazione luminosa, un impercettibile scuotersi della coscienza, la sensazione che una speranza impronosticata, sgomitando attraverso un raffinato gioco di chiaroscuri, da un momento all’altro possa cambiare il segno di quelle vite cristallizzate e sconquassare l’ordine mortifero delle geometrie in cui sono inserite.



“Summer evening”, realizzato nel 1947, è il volto emblematico di questo malinconico ottimismo. Circondati da un’ambientazione interamente immersa nell’oscurità, due giovani sembrano sussurrarsi qualcosa sotto la flebile luce di un portico che anticipa la porta di un’abitazione (probabilmente di lei). La ragazza ha i piedi ben piantati a terra, l’espressione del viso fiera e decisa. Il ragazzo, invece, si mostra in una posa più precaria, adagiato su un muretto, come se fosse pronto ad andare da un momento all’altro, gli occhi di chi ha qualcosa da dire, di chi ha bisogno che la sua confessione venga ascoltata. Una scena semplice, che tuttavia non necessita di altro per essere raccontata: è l’Attimo nella sua sconvolgente naturalezza. E nella sua fatalità.

Nell’incontro dei due giovani l’attesa si compie dinanzi agli occhi dello spettatore: l’occasione si materializza e il destino dei protagonisti sembra dipendere da quei gesti tanto essenziali quanto densi di volontà. Tutto ciò che li circonda è buio perché non ha rilevanza rispetto alla partita che si sta giocando al centro del dipinto. Una vera scintilla di luce, che basta a sé stessa e sovrasta ogni sfumatura di tristezza. I ragazzi del quadro vivono quell’istante, che li vede insieme, forse per l’ultima volta, forse per la prima di tante altre. Così la loro solitudine può tramutarsi in condivisione o in una nuova, più intensa attesa.

Perché, in fondo, Hopper non è soltanto il pittore del silenzio, ma soprattutto quello degli attimi, l’artista che più di ogni altro ha saputo comunicare la miracolosa possibilità di sottrarsi a ciò che ci ferisce. È nel momento in cui rinunciamo ad adeguarci a qualcosa in cui non ci rispecchiamo, in cui accettiamo anche le conseguenze di un momentaneo isolamento, che possiamo attingere alla verità che ci serve. Il segreto non è tanto vivere l’attimo, quanto, piuttosto, vivere nell’attimo. E anche, perché no, nel dubbio. A volte, è l’unica strada all’altezza delle nostre ricerche.