Risulta difficile immaginare che un talento come quello del romeno Ion Bârlădeanu (1946-2021) sia stato scoperto quando l’artista aveva già superato la sessantina. Eppure, questo singolare personaggio nato nel 1946 a Zapodeni (regione della Moldavia), acquistò fama e notorietà solo nel 2008. A notarlo, si potrebbe dire casualmente, fu Ovidiu Feneș, artista romeno affermato che subito lo segnalò a Dan Popescu, gallerista di prestigio capace di riconoscere ed apprezzare la sorprendente genialità di Bârlădeanu.
Da quel momento si aprì per Ion la strada del successo, tanto che, dopo appena un anno, espose dapprima a Bucarest poi a Basilea e Londra e infine a Parigi, dove le sue opere vennero collocate accanto a quelle di Andy Warhol e di Marcel Duchamp: pur non essendo Bârlădeanu un amante della sperimentazione, gli esperti vedevano nei suoi lavori un’espressione di assoluta libertà, una libertà maturata grazie soprattutto al percorso doloroso e sofferto dell’intera sua vita. Interrotti molto presto gli studi, provò di tutto per sopravvivere: dapprima fece il becchino, poi l’operaio, il falegname, lo stagnino, il tagliatore di canne sul delta del Danubio e persino la guardia della Casa del Popolo; finì anche in carcere, venne indagato in ambito politico, fu vittima di delazioni; nel periodo di custodia vigilata, confessò lui stesso di essere giunto sull’orlo del suicidio. Costretto, durante il regime, a lavorare in nero, scavò buche e dissotterrò cadaveri. Anche negli anni successivi al crollo di Ceaușescu, Bârlădeanu continuò a guadagnarsi il pane riciclando bottiglie e vivendo a Bucarest nella discarica a cielo aperto di un bloc.
Se la caccia appassionata a vecchie riviste scovate negli immondezzai cittadini impegna circa trent’anni della sua esistenza, sarà proprio quella attività a fornirgli la materia prima per le sue opere, quelle cioè che lo renderanno in breve tempo famoso. Nonostante infatti l’artista, durante e dopo la dittatura, sia rimasto sempre ai margini della società, società che peraltro disprezzava e alla quale aveva scelto di non sottomettersi, va detto che fu innanzitutto il regime la principale fonte della sua ispirazione. Nei collage che creava, sapeva come nessun altro rappresentare il volto oscuro del potere: per narrarne la diabolica perversione, Ion faceva uso di un’ironia arguta e sprezzante che gli consentiva di prendere in giro tutti e di “mettere nel porcile anche Ceaușescu…”. Con materiali poveri, l’arte di Bârlădeanu miscela genialmente pop art e surrealismo dada. Di forte impatto visivo, le sue opere esigono però un’osservazione attenta e circostanziata: occorre “scavarle” per reperire i singoli dettagli, nessuno dei quali è privo di un messaggio vigoroso e potente: paradigmatiche le immagini di note star hollywoodiane, status symbol delle libertà occidentali, cui Bârlădeanu affianca contesti narrativi di cronaca locale che descrivono icasticamente il clima fosco degli anni del regime.
In occasione della mostra di suoi collages ospitata a Praga nel maggio del 2012, Lucian Ștefănescu, giornalista di Radio Europa Libera, ebbe modo di incontrarlo. “Dopo averlo ascoltato parlare”, osserva Ștefănescu riflettendo su quel dialogo, “ci si rende conto che, prima di essere un artista, Ion Bârlădeanu non ha mai smesso di padroneggiare quello stesso mestiere di cui parla Pavese nel suo Il mestiere di vivere”.
Scrisse di lui Dan Popescu, il primo ad aver compreso la singolare personalità incarnata da quel sessantenne romeno vissuto di stenti fino al 2008: “È noto come Ion avesse una passione irrefrenabile per il cinema; avrebbe voluto fare l’attore o il regista. Per mettere a frutto il suo talento naturale, utilizzò ugualmente gli attori, ma nei ‘suoi’ film, in modo da non doverli pagare: se non hai mezzi per finanziare una pellicola – ripeteva spesso – diventi tu un regista mondiale con le forbici”. Non si esagera nel dire che le forbici di Ion hanno saputo reinventare i fatti secondo una propria singolare logica: nelle sue mani la realtà si spezzetta e si ricompatta in una coraggiosa varietà di mondi possibili. “Per tutta la sua vita – è ancora Popescu a parlare – Ion Bârlădeanu scelse la libertà e disprezzò ogni tipo di autorità convenzionale. Nella sua arte seppe costruire la sua arena immaginaria nella quale era invincibile, un’arena in cui il fariseismo veniva sconfitto tra gli applausi del pubblico e nel quale il film si svolgeva secondo uno scenario umanistico-ironico […] Se c’è onestà, talento e ostinazione nel cogliere la realtà, allora i parametri sono disposti in modo tale da far emergere un’arte eccezionale”.
E fu proprio grazie a tale nobile coerenza che anche gli ultimi collage di Ion Bârlădeanu, scomparso nell’ottobre del 2021, ebbero qualcosa di importante da comunicare: con l’arguzia di uno stile consolidato che aveva mantenuto la sua forte connotazione onirica, Bârlădeanu denuncia con amarezza la nuova schiavitù di cui soffre il suo Paese: “La Romania si è liberata da un dittatore che era come un lupo sazio, per ritrovarsi ora assediata da un branco di cani affamati”. Il riferimento all’Europa è fin troppo evidente. L’opulenza sterile dell’Ovest rappresenta per l’artista clochard un’altra forma di dittatura più subdola certo, ma altrettanto perniciosa. Tutta la produzione di quest’uomo così sorprendentemente creativo sembra gridare, ad un mondo che da tempo ha tradito le proprie radici, che “giudicare è l’inizio della liberazione”. I collage di Bârlădeanu celano la purità di questa promessa.
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