È senza dubbio provocatoria la mostra Monte di Pietà, allestita dall’artista svizzero Christoph Büchel presso lo spazio espositivo della Fondazione Prada a Venezia. Inaugurata in concomitanza con l’apertura della Biennale Arte attualmente in corso, sarà visitabile fino al prossimo 24 novembre.

Se intrigante è il titolo, ancor di più lo è l’allestimento, che ha trasformato Palazzo Corner in un enorme bazar. Sulla facciata e lungo la calle di accesso al sontuoso edificio, locandine e manifesti annunciano una svendita di grandi proporzioni: “Fuori tutto”, “Liquidazione totale”, “Vendesi” … Il tema, dunque, sviluppato nella imponente installazione immersiva, è lo studio del concetto di debito come base della società e strumento di potere.



Chiarificante, al riguardo, il messaggio che introduce il percorso: “Urgent Call for Radical Action: Halt the Venice Art Biennale Now” (Appello urgente ad un’azione radicale: fermare subito la Biennale d’arte di Venezia). L’invito così pressante è rivolto alla comunità internazionale. Non basta infatti, per rispettare la cittadinanza, limitarsi a tassare il turista straniero o l’italiano non residente; serve piuttosto, a giudizio di Büchel, modificare il sistema-biennale contro ogni forma di commercializzazione dell’arte: “Venezia non è più una città – recita il primo punto di un elenco che ne denuncia le criticità -, ma un parco giochi distopico destinato ai ricchi”. E ancora: “l’over-turismo ha trasformato la nostra cultura in una merce per il miglior offerente”.



Al Monte di Pietà è dunque Venezia ad essere quotidianamente svenduta. A farci i conti è proprio il visitatore che, alquanto disorientato, impatta questa “bulimia dell’accumulo” che si snoda lungo i piani di Ca’ Corner. Oggetti d’ogni genere ingombrano lo spazio, penzolano dal soffitto, occupano le pareti secondo un ordine del tutto casuale. Ci si fa largo tra mobili massicci, brandine da campeggio, protesi corporee, attrezzi di falegnameria, matasse di fili elettrici sparse su bancali ossidati, angusti laboratori dove giacciono, affastellate, le più diverse strumentazioni; ci si inoltra poi nell’ampio salone dei gamer dove un lungo tavolo fratino apparecchiato ospita resti di cibo in fase di decomposizione; ci si imbatte in un boudoir a luci rosse; si incappa nella ludica mondanità di un casinò per giungere successivamente ad una serie di postazioni finalizzate al monitoraggio di una criptovaluta coniata per l’occasione e dal nome allusivo di schei (soldi in veneziano).



Non si arrestano le incalzanti suggestioni che Monte di pietà riserva al visitatore nel percorso che conduce dal mezzanino al piano nobile dove, grazie alla genialità di Büchel, si materializzano oggetti e suppellettili che pensavamo ormai definitivamente estinti. Come ad interrompere l’angosciante accelerazione imposta dalla tirannia del tempo, riemergono dal passato vecchi tostapane, giganteschi frullatori, bilance da cucina, asciugacapelli, registratori e radio di grosse dimensioni; tra le bacheche ingombre di bigiotteria grossolana, di spille, pupazzi e vasetti di dubbio gusto, un occhio attento potrà intercettare una lavagna di Joseph Beuys, un Tiziano, una serie della famosa Merda d’artista di Piero Manzoni e un bozzetto di Balla datato 1902, che porta il titolo, guarda caso, di Fallimento. A dominare l’installazione è però l’opera-valigia The Diamond Maker (2020) del curatore. Christoph Büchel l’ha riempita di diamanti artificiali creati in laboratorio, risultato del processo di trasformazione dell’intera raccolta delle sue opere, compresi i lavori dell’infanzia e della giovinezza.

Prima di concludere la visita, è curioso soffermarsi almeno per un momento al piano terra di palazzo Corner: nell’ambito della mostra è stato ricavato uno spazio che intende ricalcare la Cappella della Pietà dell’Istituto Cavanis di Venezia: in una luce soffusa dai toni rossastri, si respira il clima silenzioso e raccolto di un luogo sacro. Non mancano l’altare, il crocifisso, le panche con gli inginocchiatoi, un’acquasantiera in marmo venato sopra la quale, appese alla parete, incombono numerose le protesi di mani e gambe, ex voto, chissà, offerti dalla devozione dei fedeli in segno di gratitudine per una grazia ricevuta.

Ma cosa ci fa, viene da chiedersi, una cappella dentro la mostra di palazzo Corner? Può forse anche Dio venire liquidato o diventare, per l’ennesima volta, merce di scambio?  Se la sorte di Venezia, come Büchel ha saputo così acutamente denunciare, è quella di venire quotidianamente svenduta, quale minaccia potrà rappresentare la messa in vendita dell’orizzonte culturale della nostra storia millenaria?

Mi piace allora pensare che in questo “catasto della contemporaneità” messo in mostra con singolare perizia, sia stato riservato un posto anche a Gesù: quanto a contemporaneità, infatti, lo consideriamo da sempre un protagonista imbattibile.

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