Non lo conosce quasi nessuno e anche gli specialisti sanno ben poco di lui. Stiamo parlando di Emilio Malerba, l’artista più dimenticato fra i sette che nel 1922 fondano il Novecento italiano. È l’unico a cui, da quasi un secolo, non è più stato dedicato un catalogo. Perfino la sua data di nascita, nel 1878, risulta quasi sempre sbagliata nelle note biografiche.
La sua ultima personale risale al 1931, la sua ultima monografia addirittura al 1927 (anche se ne è appena uscita un’altra, a cura di chi scrive: Emilio Malerba, Manfredi, 2024). Da dove deriva la sua sfortuna critica? Malerba ha avuto, in realtà, un destino artistico infelice. La sua vita si è spenta nel 1926, quando non aveva ancora quarantotto anni e stava attraversando la stagione espressiva più intensa, quella in cui nascono le sue opere migliori. “Morì proprio quando aveva trovato la sua via” scrive il suo amico Dionigi Maladorno. E forse anche Malerba sentiva di non aver detto tutto quello che poteva dire, se nei suoi ultimi giorni chiedeva alla moglie “due o tre matite da tenere in mano per illudermi di averci i pennelli”, come racconta sempre Maladorno.
Dopo una stagione giovanile influenzata in parte da Giuseppe Mentessi, suo maestro a Brera, ma più ancora dalla tarda scapigliatura del coetaneo Ambrogio Alciati, suo compagno di studi, Malerba già intorno al 1916 solidifica la sua pittura e col 1920 diventa un protagonista di quella forma precisa e stupefatta che prenderà il nome di realismo magico. Purtroppo nel 1925 lo assale una malattia incurabile e deve smettere di dipingere. Il tempo della sua ricerca espressiva, insomma, è drammaticamente breve. Eppure in quei pochi anni riesce a dare un’idea della sua statura di artista. Conduce infatti un’indagine sul “vero”, come allora si diceva, che non coincide col realismo, ma con la ricerca della segreta poeticità di figure e cose, quasi della loro anima. Delle protagoniste dei suoi quadri vuole esprimere la vita interiore, non la fisionomia superficiale. Il suo popolo di donne, di bambine, di adolescenti, il suo universo di piccole cose lascia trasparire, dietro il velo dell’esistenza di tutti i giorni, una delicatezza di sentimenti e una introversa sensibilità.
Il suo è un mondo di intimità domestiche, di confidenze familiari, di una vita che non oltrepassa l’orizzonte di una stanza ma trova nell’affetto altruistico la sua ragione d’essere. Le amiche, in questo senso, è un’opera-manifesto. Malerba, come testimonia Carrà, prende ispirazione dall’omonima opera di Courbet (Le sommeil o Les deux amies, 1866, Parigi, Petit Palais), ma la interpreta in forme completamente diverse. Le tre ragazze, due sdraiate sul divano, una accoccolata per terra, che scherzano tra loro e si raccontano quello che racconterebbero o racconteranno anche al loro diario, esprimono un momento di gioia familiare. Non si tratta però di una tranche de vie, di un frammento di vita vissuta nel senso ottocentesco del termine, perché la forma non naturalistica, la semplificazione dell’ambiente, la mancanza di descrizioni insinuano nella scena un accento più concettuale. Non sappiamo cosa le giovani donne si confidino e se il gesto dell’una che posa la mano sul grembo dell’altra alluda una futura maternità o se invece sia la prima, che guarda sognante nel vuoto, a confessare un segreto alle altre. La narrazione si sintetizza come la forma.
Dimenticati gli accenti erotici di Courbet e Toulouse-Lautrec, che lasciavano intendere un rapporto saffico, il soggetto rientra in un ambito più “regolare” e, come avviene sempre in Malerba, assume una particolare briosità psicologica, quasi fosse un’istantanea bloccata nel tempo. Quella che potrebbe diventare una scena di genere, però, si trasforma essenzialmente in un esercizio di volumetria, che culmina nella scura geometria del paravento, destinato ad accentuare la profondità dell’immagine, e nella donna tondeggiante, di ascendenza giottesca, posta di spalle a marcare il primo piano.
E’ una delle ultime opere che Malerba dipinge. Nel luglio del 1925, mentre sta preparando i quadri da inviare alla Biennale di Venezia dell’anno successivo, dove è invitato con una sala personale, confida alla sorella: “Non sono in condizioni di operare pienamente, ma spero di superare presto questa crisi”. Scompare nel marzo 1926, poco prima della inaugurazione della rassegna veneziana e poco dopo l’apertura della prima Mostra del Novecento italiano, alle quali non era riuscito a inviare nulla.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.