Persino Johann Wolfang von Goethe riconosceva il carattere “intimamente esperto, virilmente integro, senza forzature” della pittura di Giovanni Francesco Barbieri, detto Il Guercino (1591-1666), al punto da inserire una tappa supplementare nel suo viaggio in Italia per rendere omaggio a Cento, borgo natale dell’artista, centro economico e culturalmente vivace a metà strada tra Bologna e Ferrara. Anche noi proponiamo una sosta di fine estate nella bella città di Torino, che nei Musei Reali ospita un’affascinante mostra del maestro centese, giustamente prorogata fino al 15 settembre.



Con oltre 100 opere anche di artisti coevi, provenienti da importanti musei e collezioni, tra cui il Prado e il Monastero dell’Escorial, l’esposizione non può che dar conferma del giudizio lusinghiero del pittore bolognese Ludovico Carracci che lo definì “gran disegnatore e felicissimo coloritore: è mostro di natura e di miracolo da far stupire chi vede le sue opere”.



Basterebbe già solo ammirare uno dei suoi quadri più impressionanti, giustamente scelto come copertina del catalogo della mostra, Il ritorno del figliol prodigo del 1617, con quello sguardo severo e insieme di profondo amore del padre che accoglie il figlio pentito in ginocchio. Il gesto delle mani del genitore che accoglie con tremore anche tutto il peccato del ragazzo che si prostra ai suoi piedi; i colori intensi accompagnati dal chiaroscuro del corpo del giovane pentito con i piedi sudici in primo piano, segno del suo lungo cammino lontano “dalla retta via”, conferiscono alla tela una carica emotiva di grande coinvolgimento.



Ma la “facilità comunicativa” del Guercino, grazie alla quale il pubblico della mostra entrerà subito in sintonia con l’artista, non è affatto pura spontaneità, perché la sua arte è l’esito di un’elaborazione assai complessa, frutto della sua costante osservazione dei modelli che lo circondavano, come Ludovico Carracci a Bologna o Carlo Bonomi a Ferrara e, quando giungerà a Venezia, la grandezza di Tiziano.

Nel caso del maestro emiliano non siamo dunque semplicemente in presenza di “solo istinto di natura”, come qualcuno voleva far credere costruendo il mito di un Guercino totalmente autodidatta, privo di veri maestri, perché in realtà, pur non andando a bottega, osservò e imparò molto dagli altri, tanto che “diceva ch’egli non aveva imitato nessuno; aveva preso da tutti e poi fatto una maniera a suo genio poiché chi imiterà un altro sarà sempre il secondo. Che, purché vi sia il naturale dentro, ogn’uno è padrone della sua maniera”.

Raggiunse il successo quando si trasferì a Roma nella tarda primavera del 1621, in seguito all’elezione al soglio pontificio col nome di Gregorio XV del suo protettore, l’arcivescovo Alessandro Ludovisi, appartenente a una prestigiosa famiglia bolognese con cui era entrato in contatto quand’era ancora a Cento. Fama che mantenne anche dopo l’improvvisa scomparsa del papa solo due anni dopo. La carriera del pittore proseguì, forse con un progressivo “addolcimento” della sua pittura, ma sempre in stretto contatto con il dato naturale che lo caratterizzava insieme alla forte impronta luministica.

Ma come una sezione della mostra torinese ben documenta, il genio di Guercino si manifesta anche nel disegno, strumento preziosissimo per l’elaborazione compositiva e stilistica delle sue opere, che l’aveva portato a creare, già nel 1616, un’Accademia del nudo, dimostrando anche una singolare attitudine all’insegnamento, come afferma lo storiografo Cesare Malvasia: “Cominciò quest’anno a farsi conoscere anco Maestro nell’imparare ad altri ciò ch’egli non imparò mai da veruno; e con tanto amore cortesia faceva questo officio, che più che da scolari, li trattava come figli”.

Ancora il mito dell’autodidatta, legato alle umili origini del Guercino, ma insieme una dimostrazione della doppia identità dell’artista, “discepolo e maestro”. Quanto poi al soprannome “guercino”, riconosciuto con umile evidenza dal pittore nell’Autoritratto con cui si apre la mostra, ce ne dà conto il suo biografo bolognese Jacopo Alessandro Calvi (detto il Sordino!) con particolare sensibilità: ”Essendo ancora in fasce, occorse che un giorno mentre egli dormiva, per trascuraggine forse della donna che l’aveva in cura, ci fu chi vicino a lui proruppe in un grido così smoderato e strano, che il fanciullo svegliatosi pieno di spavento, diedesi a stralunar gli occhi, cui fors’anco abbagliava alcun lume, per si fatta guisa, che la pupilla dell’occhio destro gli rimase travolta e ferma per sempre nella parte angolare di esso, ond’egli poi cresciuto, fu chiamato col nome di Guercino, che ora è si cognito e famoso”.

Lo stile fluido e emozionante del pittore centese colpisce il visitatore nelle opere religiose come San Matteo e l’angelo o La liberazione di san Pietro (lo sguardo stupefatto di Pietro e le catene sciolte in primo piano), luminose e intense, con un realismo dei personaggi quasi caravaggesco. Ma non meno commovente è la dolcissima Immacolata Concezione e impressionante la seconda versione de Il ritorno del figliol prodigo (1627-1628), quasi una sequenza cinematografica che immortala il momento della nuova vestizione con abiti preziosi del giovane, che si sfila la camicia sdrucita, mentre la triangolazione degli sguardi tra il padre, il servitore e il figlio e l’incrocio delle mani sono valorizzati dal piano americano dell’inquadratura. Ma non mancano altri temi biblici, soggetti profani e paesaggi dipinti con la stessa maestria e originalità. Ancora le parole di Goethe tracciano un ritratto perfetto della produzione di Guercino: “Le sue opere si distinguono per gentile grazia morale, per tranquilla e libera grandiosità, e per un che di particolare che consente, all’occhio appena esercitato, di riconoscerle al primo sguardo”.

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