Il Covid-19 continua a minacciare il pianeta nella forma, piuttosto oscura, delle sue molteplici varianti. Immersi come siamo in questa situazione così articolata e complessa, spesso la nostalgia del mare, insieme alla bellezza bruciante di certi paesaggi, ci stringe alla gola mettendoci addosso anche un pizzico di malinconia.
Perché allora non fermarsi, in compagnia di Cézanne, a scrutare la distesa azzurra del Golfo di Marsiglia e respirare, almeno con l’immaginazione, le pungenti fragranze e la ventosa aridità di un territorio selvaggio?
Per ciò che rappresenta, questo soggetto di Cézanne (l’opera è del 1879) costringe l’osservatore attento a chiedersi che cosa sia a rendere così eccezionale un dipinto i cui elementi sono quelli comuni a quasi tutte le marine: la distesa increspata del mare, il cielo, le montagne, la costa con il leggero declivio del suo profilo, l’affollarsi lungo il pendio di una vegetazione mediterranea.
La novità sembra segnalata già nel titolo: Il Golfo di Marsiglia visto da l’Estaque. A muovere infatti il paesaggio, a non appiattirlo spegnendolo sul fondo di un orizzonte anonimo e privo di caratterizzazioni, è proprio il punto di vista scelto da Cézanne per trasferire sulla tela questo bluastro cuneo di mare che da millenni la terra ospita fra le sue ampie e solide braccia.
Per disegnare l’ansa solenne del Golfo, l’autore non esita ad inoltrarsi fino a questo angolo di paradiso; ciò gli permette di fissare con la graffiante incisività della sua pennellata quanto altrimenti gli sarebbe sfuggito, perdendosi nell’indistinta genericità di un paesaggio troppo simmetricamente costruito, per consentire al primo piano di imporsi come sospinto dalla indomabile forza del vento.
Ecco evidenziarsi così la terra rossastra, i muretti a secco la cui accecante luminosità contrasta le molteplici tonalità dei verdi, il percorso appena accennato di qualche mulattiera che si inerpica a tratteggiare il profumato mistero della macchia mediterranea fino a raggiungere l’accogliente frescura di un cascinale tra gli alberi, ricovero amico, quasi celato da queste remote lucentezze.
Di luce infatti è intrisa tutta l’opera: una luce che neanche la salmastra distesa azzurra riesce a mitigare; la assorbe piuttosto come in un enorme specchio, per rifrangerla, moltiplicata, dall’altra parte del Golfo: orizzonte scolpito in un’arida e polverosa lontananza. Anche le montagne, plasticamente squadrate, attingono il loro vigore da quella cascata di luce bianca che, sul limitare della tela, ne esalta l’imponente superbia. Tutto rimane così tacitamente sospeso nell’abbagliante luminosità di un secco e ardente mezzogiorno estivo.
Una bellezza capace di restituirci un’imprevista ventata di speranza.
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