È tornato a casa, alla Galleria Ricci Oddi di Piacenza, il famoso Ritratto di signora (1916-17) di Gustav Klimt, che era stato rubato nel 1997 ed è stato inaspettatamente ritrovato lo scorso dicembre, nel giardino del palazzo, da un componente dello staff del museo.
Sono tanti, e non solo a Piacenza, gli appassionati che non vedono l’ora di rivedere l’opera, quando in Italia riapriranno gli spazi espositivi, anche perché Klimt (1862-1918) è, passateci il termine, una vera pop star. Nessun artista, nemmeno i grandissimi come Picasso, Kandinskij o de Chirico, ha la sua stessa popolarità, misurabile con le apparizioni negli spot pubblicitari, sulle copertine dei libri, nei gadgets e in altre cose ancora. Forse perché Klimt è stato l’ultimo classico della modernità, con la sua capacità di far rivivere l’oro dei maestri bizantini nella Vienna di Freud e Schnitzler.
Per festeggiare il ritorno a casa del dipinto la Galleria Ricci Oddi ha promosso un “Progetto Klimt” che si svilupperà in quattro mostre, fino alla primavera 2022. La prima, che è già allestita e sarà visibile appena i decreti lo concederanno, è dedicata appunto al Ritratto di signora, a cui si accosta un disegno praticamente inedito sempre di Klimt, Ritratto di vecchio, anch’esso del museo.
La Signora ha una storia suggestiva. L’opera infatti non è dipinta, ma ridipinta. Nel 1996, grazie a una felice intuizione di una studentessa di liceo, Claudia Maga, si è scoperto che sotto la superficie della pittura si nascondeva un altro ritratto che si credeva perduto. Claudia ci arrivò notando che il volto della Signora era uguale a quello dell’altro dipinto, riprodotto sulla monografia Rizzoli di Klimt. E fu merito dell’allora direttore del museo, Stefano Fugazza, e di Ferdinando Arisi, il direttore precedente, assecondare quell’intuizione, compiere tutte le ricerche del caso, indagini a raggi x comprese, per arrivare a dimostrare che era proprio così.
Intitolata Backfisch (“ragazzetta”, nel tedesco colloquiale di Vienna), l’opera nascosta era stata esposta alla Grosse Kunstausstellung di Dresda del 1912 ed era stata pubblicata una sola volta, non nel catalogo di quella mostra ma più tardi, nel maggio 1918. Tre mesi dopo la morte di Klimt, infatti, il critico Franz Servaes aveva dedicato all’artista un lungo articolo sul Velhagen und Klasings Monatshefte, il mensile dell’omonima casa editrice, una delle più importanti della Germania. Fra le varie illustrazioni aveva riprodotto anche Backfisch, con la data 1912.
Come nei ritratti di Renoir o di Lautrec, la Ragazzetta è disegnata con precisione nel suo abbigliamento, col largo cappello ovale e il boa di piume avvolto intorno al collo. Quando tra il 1916 e il 1917 Klimt ritocca il quadro, elimina tutti quei particolari: l’adolescente parigina della Belle Époque diventa non solo una figura più matura, ma anche una donna senza tempo e quasi senza luogo, perché il suo vestito a fiori e la calotta dei suoi capelli potrebbero appartenere a molte epoche e a molte latitudini.
Nel 1917 era trascorsa una decina d’anni da quando Klimt aveva eseguito il suo ritratto più famoso, quello di Adele Bloch-Bauer, immersa e quasi dissolta nello splendore dell’oro. Dal 1910 però l’artista aveva eliminato il prezioso colore dalle sue tele, influenzato prima dall’impressionismo e da Toulouse-Lautrec, che aveva visto l’anno precedente a Parigi, poi dall’espressionismo di Schiele.
Anche nel Ritratto piacentino l’oro non compare, nemmeno mimetizzato in forma di gioiello e la Signora si staglia su un fondo verde che domina tutta la composizione. Diciamo “verde” per comodità, perché è difficile dare un nome a un colore così complesso, che muta continuamente sfumature e toni: non ci sono nell’opera campiture o superfici levigate, ma un insieme di pennellate “strisciate” in modo sempre diverso, dove la monocromia disagiata dello sfondo è contrastata dai rapidi tocchi dei rossi che danno nel viola, dei gialli intensi, degli azzurri, dei bianchi intrisi di rosa.
I ritratti degli stessi anni (1916-1918) Klimt li dipingeva spesso su uno sfondo affollato, carico di segni e di colori. La Signora del museo piacentino vive invece in uno spazio vuoto, dove non c’è il minimo accenno all’ambiente che la circonda e nemmeno un oggetto o un indizio che ci riveli qualcosa di lei. Abita nel colore verde come in un denso acquario.
Klimt comunque è tra i pochi protagonisti dell’età delle avanguardie che danno pieno risalto alla figura umana, soprattutto quando l’uomo in questione è una donna. Mentre l’espressionismo tedesco deforma il corpo, il cubismo lo scompone in piani e linee, il futurismo lo scinde in sequenze di linee in movimento, la metafisica lo tramuta in un manichino senza vita e l’astrattismo lo elimina del tutto, Klimt lo pone al centro della sua pittura. Anzi, superato l’affascinante decorativismo del suo “periodo oro”, ne riconquista l’organicità, sia pure insidiata dall’intemperanza e dall’eccedenza dei colori.
Il Ritratto di signora rispecchia la tensione dell’epoca, la drammaticità del momento storico (il 1916, quando è dipinto, è l’anno in cui muore Francesco Giuseppe e in cui l’Austria felix, come l’impero asburgico era chiamato, si sta dissolvendo). Certo, nella pittura di Klimt non troviamo disperazione, angoscia, gridi. Eppure qualcosa di malato e febbricitante si avverte anche nei suoi quadri, dove l’eccitazione del colore non è un segno di vitalismo, ma del suo contrario. E forse per questo il Ritratto ci appare così vicino. Perché, in questi tempi difficili, è un po’ anche il nostro ritratto.