“Quelquefois, dans un portrait de marbre, il faut, pour bien imiter le naturel, faire ce qui n’est pas dans le naturel”. Il signor de Chantelou riporta questa considerazione del suo amico Giovan Lorenzo Bernini, in trasferta a Parigi nel 1665: talora in un ritratto marmoreo per imitare la natura occorre fare ciò che nella natura non c’è. La finzione al servizio della verità nelle parole di un maestro conclamato della ritrattistica scultorea di tutti i tempi. Ma Bernini si è anche autoritratto su tela e chissà in che modo s’è rapportato a se stesso nel raffigurarsi, se ha inventato qualcosa di sé per rendere il proprio volto più aderente al vero.
Da allora son passati tre secoli e mezzo, nell’Io sono stati rinvenuti crepacci insondabili e per compiere il tragitto dal proprio volto alla tela occorre oggi transitare su un oscillante ponte tibetano. Peraltro anche i parametri del “vero” sono nel frattempo mutati.
Affiorano queste e altre riflessioni nel passeggiare lungo la galleria di autoritratti esposta ai Musei Vaticani nella mostra Io dipinto (saggiamente prorogata al 22 marzo): una nutrita batteria di 64 opere facenti parte della collezione d’arte che Franco Nobili e sua moglie Maria Antonietta costruirono lungo la loro vita e che le cinque figlie eredi hanno donato ai Musei del Papa onde non disperdere la passionale impresa mecenatistica dei genitori.
Franco Nobili è stato figura di spicco del secondo dopoguerra italiano, imprenditore e top manager che ha veleggiato a lungo e con successo nel vitalissimo oceano dell’economia privata al tempo della ricostruzione del Bel Paese, per poi entrare nell’allora florido bacino dell’industria pubblica, devastato infine dalla pirateria giacobino-giudiziaria; anche a lui toccò subire un periodo di gogna carceraria, in quanto prossimo al partito cattolico allora al potere, per poi essere totalmente scagionato. La sua passione per l’arte, coltivata con fedeltà per decenni, si concentrò su un genere particolare, gli autoritratti, che costituirono la quadreria della sua bella casa romana.
Ciascuno di noi al mattino, nel rinfrescarsi, radersi, truccarsi, trascorre brevi momenti davanti allo specchio e ha modo di incontrare il proprio volto, di notare ciò che non va, di verificare l’avanzare dei solchi del tempo, di bearsi della propria beltà per chi ne dispone, di sorridersi, di farsi una smorfia, di prepararsi al tuffo nella vita sociale quotidiana. Ma ben pochi di noi sono in grado di dipingersi (che non è pittarsi, imbellettarsi), di usare la mediazione della mano per catturare col pennello o con la matita la verità di sé o almeno l’espressione o la posa giudicata più veritiera.
Certo, assumendo che ciascun uomo è mistero a se stesso – perché la sua anima è frammento d’infinito – l’autoritratto dal punto di vista veritativo si colloca al pari dei ritratti fatti da altri, ma d’altro canto essendo ciascuna percezione interiore di sé inaccessibile a chiunque altro, l’autoritratto finisce per essere un’ipotesi su di sé molto più circostanziata e plausibile delle immagini create “dall’esterno”. E ciò a prescindere dall’abilità e dalla tecnica usata.
Ciò rende ogni autoritratto un avventuroso e affascinante enigma per lo spettatore, convocato a prender parte a un triangolare asimmetrico gioco di sguardi e di specchi. Ma chi sono i personaggi novecenteschi che si sono disegnati o dipinti in questa mostra, ben curata da Rosalia Pagliarani e brillantemente inquadrata in catalogo dalla sapiente Micol Forti?
Partiamo dai nomi più noti: il poeta Trilussa, che nel 1925 realizza un piccolo acquarello con un autoritratto satirico; Giorgio de Chirico, che nel 1969, in un’acquaforte su carta, si autoritrae a fianco di un busto di Mercurio; Giacomo Balla, in un intenso olio su tavola del 1948 intitolato Autoballa; uno splendido Antonio Mancini dal sorriso inquietante. Così tanti altri (Maccari, Tamburi, Vespignani, Rosai, F. Pirandello) e le date di acquisto di Nobili testimoniano una passione perseverante che in alcuni casi fu anche conoscenza, amicizia e sostegno verso gli artisti.
Uno scorcio di cultura italiana del XX secolo; un personale esempio di affiancamento della poesia dell’arte alla prosa delle vicende ordinarie della vita; un gesto, quello della donazione ai Musei Vaticani da parte delle figlie, che profuma di devozione ai genitori, alla tradizione pontificia (inaugurata da Paolo VI) riguardante l’arte contemporanea e alla comunità civile, che potrà godere in futuro di questo piccolo grande bene.
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