Una scelta ardita, quella di Jacopo da Ponte (1510-1592) detto Bassano che, discostandosi dall’iconografia tradizionale, preferisce rappresentare l’episodio evangelico di Emmaus collocando Gesù e i due discepoli ai margini estremi del dipinto. Ad essere tematizzato risulta così l’immaginario contesto del brano di Luca (cfr Lc 24,13-35), più che i suoi veri protagonisti.



Si dispiega la tela nella sua complessa e articolata struttura, quasi fosse lo scenario accuratamente studiato di un vasto palcoscenico il cui fondale si perde nelle crepuscolari luminescenze di un suggestivo tramonto.

Giocata su diverse tonalità di verde, la luce spiove diffusamente sui personaggi che animano la locanda e ne fissa i gesti in una sorta di statuaria immobilità. Le singole mosse, misurate e composte, sembrano infatti prescindere dalla persona di Gesù che rappresenta un avventore qualunque, sistemato, con i due compagni di viaggio, nel dehors della taverna.



Grava sull’intero dipinto una sorta di banale scontatezza, di rassegnata quotidianità che si consuma nella fiacca monotonia di rituali domestici: è facile così reperire una devozione “residua” nella donna china sul camino alle prese con il focolare; come pure innegabile è la fervida laboriosità del personaggio femminile di spalle, mentre accudisce alle stoviglie; non trascurabile, infine, la schiva determinazione della giovinetta in primo piano, che il Bassano ritrae intenta a lustrare con paziente tenacia pentole e rami di un intero servizio; la scrutano, quasi assecondandone le movenze, un gatto e un cane a caccia di avanzi il cui realismo, un po’ di maniera, è forse il prezzo pagato dall’artista alla moda corrente.



Ci assale – e ben a ragione – il sospetto che per l’autore l’episodio evangelico si riduca dunque ad un mero pretesto e nulla, sulla tela, arrivi a vibrare di autentica religiosità.

Gesù, con i due discepoli, si limita infatti a garantire l’equilibrio armonico del dipinto costruito dal Bassano su due triadi di gruppi in azione, l’una speculare all’altra.

Ago della bilancia e vero protagonista della scena risulta essere l’oste che occupa, solitario, il centro geometrico dell’intera opera: abbandonato come un sovrano sul trono angusto del suo misero potere – l’osteria – assiste inconsapevole al compiersi dell’avvenimento. Con sguardo scettico e disincantato, sembra quasi voler ignorare quanto si va consumando proprio davanti a lui.

Cristo in persona, seduto a un tavolo della sua osteria, ha acceso di una luce tutta interiore le ombre ormai cupe che incombono sulla sera. Nel gesto appena accennato del benedire il pane, si spalancano gli occhi increduli dei due discepoli che con Lui dividono il desco. Non ha bisogno, il Signore, di spettatori curiosi, non esige conferme né tanto meno consensi; umile, si manifesta, là dove intravede il pertugio di una libertà disposta a riconoscerlo. Così al “nulla” delle loro paure e dei loro rimpianti, Gesù offre ai due pellegrini la Sua presenza che supera di gran lunga ogni aspettativa.

La docile mitezza del Maestro finisce così per inondare di tenerezza la vulnerabile fragilità di quei discepoli, resi da Lui finalmente capaci di cedere alla Sua misteriosa attrattiva.