C’è una pietà diversa da tutte le altre: più alta, più struggente, più vera. È la pietà verso il cammino della bellezza dentro la storia. La preziosa opera di Emanuela Fogliadini, La Chiesa di Chora. L’ultimo tesoro di Bisanzio (Àncora, Milano 2023) è una testimonianza viva di tale pietà, tutta tesa a far vedere una ricchezza spirituale che il potere vuole nascondere. La sfolgorante bellezza dei mosaici, la precisa ricostruzione storica, il viaggio appassionato nella chiesa mettono in luce al lettore un desiderio di vita inesauribile e una narrazione senza fine.



La chiesa di Chora sorge a Istanbul in un sito che è stato il luogo di una battaglia decisiva, quella per l’affermazione del Logos vivente. Fu usato per seppellirvi le reliquie di San Babila e dei suoi discepoli martirizzati nel 298. Nel VI secolo, poi, iniziò la costruzione del monastero, luogo certo della presenza cristiana. Nel periodo della lotta contro le icone ospitò, infatti, Germano di Costantinopoli (634-733) che testimoniò con vigore teologico e forza parresiastica l’importanza delle sacre immagini. Igumeno del monastero (843) divenne poi il monaco Michele Sincello, che fu flagellato e incarcerato per non aver sottoscritto i decreti dell’imperatore contro le icone. Nel monastero trovò alloggio anche Teofane Graptus (775-845), innografo rappresentato nel parekklesion, che fu torturato e marchiato dagli iconomachi. La storia successiva del complesso monumentale, in seguito, fu drammatica: subì considerevoli danni causati dall’occupazione latina di Costantinopoli e da un terremoto (1296).



Teodoro Metochita, mecenate, abile politico, fine teologo e logoteta fece restaurare il complesso su affidamento dell’imperatore Andronico II. Gli interventi di ristrutturazione (1315-1316) iniziarono quando le condizioni dell’intera struttura erano disastrose. Teodoro riuscì con la sua intensa dedizione a celebrare la fede cristiana attraverso la bellezza iconografica della chiesa “dando corpo alla linea teologica decretata al secondo Concilio di Nicea, che riconosce alla teologia la possibilità ed opportunità di esprimere il mistero cristiano attraverso le immagini sacre”.

Esponente della Tradizione, Teodoro Metochita non è solo il vigoroso animatore di un’impresa di fede, ma è dentro l’opera fino in fondo. Innanzitutto con la sua domanda di salvezza, “Perché sono profondamente impaurito quando considero l’enorme peso dei miei peccati… Liberami in quel giorno, Signore, liberami da un giudizio doloroso e giusto”. E allora si fa raffigurare ben due volte nei mosaici. La prima volta è in vesti sontuose, tipiche del suo rango, supplicante, mentre offre a Cristo assiso sul trono regale il modellino della chiesa di Chora. La seconda volta è, invece, una piccola e nuda anima presentata da San Michele Arcangelo all’Altissimo nel Giudizio universale.



Teodoro Metochita afferma con la sua duplice presenza nell’opera che la bellezza di Chora racconta la storia della salvezza. Tale storia è non solo oggettiva e assoluta, ma riguarda, direttamente, ognuno di noi. Essa si dispiega in un tempo non nostro, abitato dalla Presenza divina. Siamo introdotti al nostro destino storico ed eterno, innanzitutto, dal grandioso Cristo Pantocratore che si trova all’ingresso della chiesa: di fronte ad esso si trova la Madre di Dio, Chora (Dimora) dell’Incontenibile. Un rimando, insomma, da mistero insostituibile a mistero inconcepibile, da salvezza misericordiosa a grembo virginale di tutti, da regalità immensa e sommessa a tenerezza e via luminosa. Una grandezza ineffabile presente e resa visibile, in tutto il tempio, da mosaici che “i monaci contemplavano tutti i giorni, più volte al giorno, nella luce soffusa delle candele, accompagnati dal canto degli inni”.

La studiosa, lungo il percorso artistico, ci accompagna dentro una vita che pulsa e passa attraverso l’attesa (Anna e Gioacchino), la crescita silenziosa e anche attraverso il dolore innocente. Ben tre lunette sono dedicate alla strage degli innocenti. Le immagini sono cruente e drammatiche. In una lunetta la madre volge lo sguardo al soldato che uccide il figlio. Una cattiveria immotivata e disumana contro i bambini, infatti, non si può vedere, non si può reggere. C’è una violenza insopportabile che è contro natura e contro verità: ieri come oggi, tuttavia, non sfugge al giudizio. Cristo stesso la sfida in terra con il suo sguardo: nulla può, ultimamente, contro Lui l’angelo nero. E ogni anima, infine, viene pesata, viene vista in tutti i suoi atti: è nuda davanti a Dio.

Nell’Anastasis di Chora, che illustra il retro della copertina del volume, vediamo un Cristo dinamico, in movimento, che spacca gli inferi e tira a sé con forza Adamo ed Eva. L’energia di Dio è presentata, dunque, come sperimentabile nella teologia viva dell’immagine. È viva infatti nella bellezza dipinta una realtà attiva ed efficace che supera ogni limite, e tira veramente fuori dal basso noi poveri uomini.

La Bellezza della Chiesa di Chora, insomma, abbaglia e irradia la profondità di un mistero esuberante. Quest’ultimo ci obbliga a fare memoria del fine ultimo della nostra povera vita, ma ricorda anche con la sua storia che siamo in tempi non semplici. La Chiesa di Chora, infatti, nel 2020 è stata adibita a moschea su decisione del Consiglio di Stato della Turchia, con la conseguente copertura dei mosaici. Successivamente, l’importante sito architettonico-artistico, patrimonio Unesco, è stato chiuso al pubblico. Viene negato e nascosto, così, il contenuto profondo della vita di Metochita: “il glorioso monastero che ho eretto è una meraviglia da guardare e una gioia per gli occhi, uno spettacolo straordinario tra tutti i monumenti della grande città”.

Nella prefazione Otac (padre) Benedikt Dečanac ricorda, in un altro contesto ancora più grave, le notti di terrore del 2004 nei luoghi del Kosovo e Metohija in cui furono distrutte icone e manoscritti da terroristi senza Dio. La speranza attuale per Chora è che la sua bellezza non venga cancellata dal potere o dimenticata dalla trascurata indifferenza degli ignavi. Il monaco ortodosso elogia, perciò, la testimonianza d’amore della studiosa, che ha reso presente con il suo attento lavoro un “luogo d’incarnazione di Dio Incommensurabile”.

Bisogna essere grati, perciò, alla preziosa opera di Fogliadini, perché ha riaperto al nostro sguardo un luogo in cui una luminosa bellezza avviene. Tutti, peraltro, abbiamo bisogno di un luogo da abitare, tutti abbiamo bisogno di vedere una bellezza grande e tutti siamo dentro una storia che non misuriamo. In un contesto storico così drammatico si può cercare di vivere il nostro tempo, immedesimandosi con Teodoro Metochita, peccatore e mendicante di un raggio di vita.

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