“Il pittore più solido, più sincero, l’unico preoccupato di dare, attraverso pure forme e puri colori, une emozione plastica”. Così Umberto Boccioni definì Achille Funi (Ferrara, 1890 – Appiano Gentile, 1972), anche se l’artista ferrarese fu attratto solo per un breve periodo dal Futurismo, di cui il suo estimatore fu invece eminente rappresentante. In mostra sono presenti alcuni bei quadri futuristi come Autoritratto futurista, Uomo che scende dal tram, Motociclista e pochi altri, a testimonianza delle sue sperimentazioni alla ricerca della novità. Ma dichiarò poi che lui, come altri, “ci gettammo allo sbaraglio nel Futurismo”. Preferì infatti Cézanne e le avanguardie francesi, ma soprattutto fu sempre affascinato dai miti classici e dal rigore rinascimentale, riferimenti per lui indispensabili per rappresentare il dato reale in modo visionario.
“Leonardo era colui che teneva desto in me l’amore per l’arte che è piena di umanità… d’altra parte i pittori italiani moderni mi facevano schifo poiché vedevo in loro una tale miseria spirituale e una tale mancanza di desiderio di ricerca…”: questa la sua confessione a Margherita Sarfatti, portavoce del gruppo “Novecento”, nato nel 1922, a cui aderì anche lo stesso Achille Funi. Auspicava un “ritorno all’ordine”, dopo la tragedia della guerra, in contrapposizione alle dissonanze dell’arte cubista, espressionista e futurista, per l’esigenza di riprendere la grandezza artistica del passato e renderla eterna. Se una certa “povertà spirituale” lo circondava, come il pittore ferrarese lamentava, al contrario in lui le suggestioni del classico erano state acquisite in famiglia, da un padre amante della letteratura e dell’arte classica. Si sviluppavano dunque in un animo “già intimamente predisposto agli ideali metastorici e al duro lavoro”, come rileva Nicoletta Colombo, curatrice della mostra Achille Funi. Un maestro del Novecento tra storia e mito, insieme con Serena Redaelli e Chiara Vorrasi. Del resto la passione artistica di Funi era indomabile, come lui stesso riconosceva: “Da ragazzo dinnanzi al cavalletto passavo giorni e giorni, per intere settimane; non di rado mi dimenticavo persino di mangiare”.
Il primo grande cambiamento dell’artista ferrarese avvenne nel 1920, quando adottò “le sicurezze prospettiche dei rinascimentali, la collocazione centrica delle figure disposte secondo la struttura piramidale leonardesca, la smaltatura del colore che esalta l’intensa qualità plastica e la geometrizzazione dello spazio, fondamenti essenziali al conseguimento della dignità dei valori assoluti”. È questo il Realismo magico del Nostro, che possiamo ammirare nella dolcissima Maternità, in cui la tenerezza della madre che sembra una Madonna, con gli occhi socchiusi, contrasta con lo sguardo vivacissimo e quasi impertinente del bambino; sullo sfondo un paesaggio in prospettiva leonardesca, ma con un edificio moderno. I volti dallo sguardo sospeso di La sorella o di Autoritratto da giovane ci incantano invece quanto la sapienza del quadro Una persona e due età, da cui a fatica ci distacchiamo, quasi che solo con una lunga contemplazione potessimo coglierne il segreto più intimo.
Dunque una spiritualità profonda, quella di Achille Funi, che inevitabilmente sconfina nella religiosità, come attesta il dolorante Cristo di Imago Pietatis, trafitto e insieme vigoroso nella sua forte muscolatura, che si erge dal sepolcro con potente delicatezza. Un sentimento religioso, e quindi profondamente umano, emerge anche nella bella e dolce fanciulla col velo di Lettura domenicale, sullo sfondo azzurro di una finestra aperta sul cielo, che non può non farci pensare a una Madonna rinascimentale; ma è una moderna vergine, in un semplice contesto familiare, che in qualche modo ci apre alla sacralizzazione del quotidiano. Persino le nature morte profumano di infinito, per esempio nello splendido Ragazzo con le mele; come all’eternità alludono opere direttamente ispirate ai tanto amati miti, come Adone o Riposo di Apollo, che coniugano rigore plastico e colori visionari.
Nella piena maturità l’artista si è dedicato anche alla pittura murale in cui si è dimostrato maestro dell’affresco (fu anche docente e poi direttore dell’Accademia di Brera fino al 1960), per esempio nel grandioso Mito di Ferrara per la Sala della Consulta della sua città di origine. Eppure l’affascinante maestria di Funi non è così popolare. Perché? Fu accusato di essere fascista militante perché aveva partecipato a Milano al raduno di fondazione dei Fasci di Combattimento in Piazza San Sepolcro del 1919, ma in seguito se ne era allontanato. Nel 1971 chiarì: ”I punti di convergenza con il fascismo potevano forse riconoscersi unicamente in talune rivalutazioni del passato storico e umanistico nazionale… Ma noi non facevamo politica … pensavamo solo a cercare nuove vie di rinnovamento”.
Il pittore ferrarese è vissuto in un periodo di crisi e cambiamento e lo ha attraversato ponendosi al disopra di contingenze e accidentalità, perché scavava nella profondità umana. Come efficacemente lo dipinge la curatrice Nicoletta Colombo, sembrava “un uomo del Quattrocento, un umanista involontariamente calato nella modernità”. Insomma, si potrebbe definirlo “un pittore che pensava in latino”. E in questa ricchezza attinta dal passato, capace di illuminare il presente, sta la sua magia.
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