“Ricordati che il dolore passa, ma la bellezza resta”. Mi vengono sempre in mente le parole di Renoir quando vedo le opere, così liete e luminose, di Giacomo Toselli, e osservo il suo mondo stupefatto, dove tutto è soave.

Apriamo subito una parentesi. Soave è un aggettivo che può sembrare retorico, ma invece è tremendamente concreto. Come spiega l’etimologia, deriva dal sanscrito “su” (bene) e “wedu” (mangiare, come in “edibile”). Rimanda cioè a qualcosa che ti fa bene quando la mangi, che si deposita lievemente, non pesantemente, sullo stomaco. Qualcosa che non è indigesto, insomma, come invece lo è la maggior parte delle cose fra cui ci tocca vivere.



Dicevamo della pittura di Giacomo. Nei suoi quadri, e più ancora nelle sue carte, nei suoi acquerelli, troviamo lune dorate su cui si può salire come su una gondola; cigni bianchi come quelli delle favole che nascondono una luna fra le piume; lune d’argento che si riposano sulla poltrona di casa. La luna è la regina dei suoi sogni che, mentre diventano segni, non smettono di avvolgerci in un’atmosfera incantata.



Nelle sue opere troviamo però anche molto altro. Troviamo farfalle che si librano sull’acqua, pappagallini color prato che abitano tra le nuvole, piroscafi che viaggiano verso l’Atlantide e verso l’infinito. Accanto alle memorie di Occidente avvertiamo ogni tanto le fragranze dell’America del Sud (la moglie dell’artista è peruviana e qualche nostalgia del mondo andino si avverte anche nel suo lavoro). Un posto d’onore, poi,  spetta alla sua cagnolina Lilly che in qualche quadro ama accucciarsi addirittura sulla sedia di Van Gogh. “Lilly è come una seconda vita. È una presenza terrena e insieme onirica. La corda rossa del suo guinzaglio è come un collegamento tra il cielo e la terra” racconta Giacomo. E anche: “Ho dipinto la mia cagnolina Lilly sdraiata per terra, di fianco a una pozzanghera celeste con una palla rossa. È come una siesta tranquilla in comunione col cielo, dove anche il passaggio delle nuvole indica una sorta di apertura cosmica. È come il cielo sulla terra”.



Chi guarda i quadri dell’artista può pensare che la sua sia stata una vita tra le più felici, tra le più fortunate, tra le più fiabesche. Solo in parte è così. Giacomo ha dovuto scontrarsi fin dalla nascita con alcune difficoltà, come si dice oggi, fonoarticolatorie, ma ha saputo coraggiosamente superarle. Anzi, forse sono state proprio loro una delle radici della sua vocazione artistica. Ci spieghiamo meglio. Giacomo è figlio di Franco Toselli, uno dei galleristi più significativi della seconda metà del Novecento. È cresciuto, quindi, fra quadri e opere d’arte. Era naturale che volesse diventare un artista. Forse però la sua ricerca è nata anche da qualcosa d’altro, cioè dal desiderio di trovare un linguaggio che parlasse senza bisogno di voce e si facesse sentire senza bisogno di orecchie. Il linguaggio della pittura, appunto.

Con quel linguaggio Giacomo ha saputo creare il suo mondo: ha dipinto una vita abitata continuamente dal cielo e soprattutto dall’amore che, come dice Dante, “muove il sole e le altre stelle”. L’uso di colori luminosi, mattutini, non ne è che la conseguenza.

Nei suoi quadri il cielo non è sopra, ma dentro le cose. Si disegna dentro una pietra, si tinge di rosa per ornare un castello, si accende d’oro per orlare le nuvole. Ci fa compagnia. Ci tende la mano. Lo ritroviamo in un abito trapunto di stelle o di farfalle, in una cabina da spiaggia abitata da un grande cuore rosso, nell’immagine dell’Italia intessuta di nuvole bianche e benevole. Quello di Giacomo, dunque, è un mondo visionario alla Chagall, alla Magritte, alla Portofranco (il gruppo di artisti che gravita da vari anni intorno alla Galleria Toselli). È un mondo dove sembra che le fiabe e i sogni diventino realtà. Non perché il dolore non esista, ma perché si può oltrepassare. E non perché l’uomo sia buono, ma perché si lascia raggiungere dal cielo. Come dice Giacomo, dal cielo sulla terra.