Non si stancava mai di lavorare, Henri Matisse, né mai esauriva la sua creatività: giunto quasi al termine del percorso terreno, sceglie di raccontare la sua vecchiaia in un’opera autobiografica che ha per titolo La tristezza del re.
Realizzato con la tecnica a lui congeniale dei papiers découpés (collage di elementi ritagliati sopra un foglio di carta su di uno sfondo dipinto a guazzo), il lavoro dell’artista ci offre un variopinto girotondo di forme festose e bizzarre che non sembrano certo evocare l’esperienza drammatica della morte. È vero che al centro dell’opera Matisse veste il protagonista di nero, ma come giustificare i fiori gialli che ne costellano l’abito? E la chitarra ocra che il re fa vibrare dando vita ad una danza appassionata? Come si spiegano le ritmiche e sonore percussioni diffuse dallo strumento collocato in grembo alla figura – forse quella di un servitore – accucciata alle spalle del sovrano? Il gesto energico del suo braccio che sta per calarsi sul minuscolo tamburo, imprime alla scena un ulteriore movimento amplificato dai petali gialli che piovono leggiadri sui personaggi della narrazione.
Lo sfondo, dipinto a guazzo, costruisce uno scenario contrassegnato da colori violenti: il nero, il blu, il rosa, il giallo, l’ocra, il verde si impongono incisivamente allo sguardo di chi osserva. Sono ancora in pochi a credere che qualcuno, rinunciando del tutto alle regole della prospettiva, riesca ugualmente a delimitare uno spazio dove le combinazioni, solo apparentemente casuali, conferiscono respiro e profondità ad un luogo del cuore.
Perché il percussionista potesse accovacciarsi con il suo tamburo, sono bastate a Matisse due semplici strisce di colore sovrapposte, l’una di un rosa acceso e l’altra di un blu elettrico; per esaltare le forme sinuose della donna, gli è stato sufficiente vibrare due nere pennellate sull’abito bianco che la avviluppa; ha inventato una pioggia di petali luminosi per irrorare questo angolo di paradiso dove la festa della vita non vuole rassegnarsi a finire.
Non c’è traccia di simmetria nell’opera di Matisse, e tanto meno tale simmetria è reperibile nella realtà, dove tutto obbedisce a un disegno misterioso e imprevedibile che sempre ci sovrasta. Nei suoi lavori Matisse fa vincere dunque la realtà che ogni volta ha la meglio sull’illusione prospettica. “Per l’artista” è lui stesso a sostenerlo “la creazione comincia dalla visione. Vedere è già un’operazione creatrice che esige uno sforzo”. Quello stesso sforzo che lo impegnò per tutta quanta la vita e che neppure l’incombente vecchiezza riuscì a spegnere.
“Vi manca solo la malinconia!” disse una volta Giussani ad un gruppo di universitari che festeggiava, entusiasta, la propria giovanile speranza.
Ne La tristezza del re, il suo papier autobiografico, Matisse ci ricorda che, diversamente da come siamo soliti pensare, tristezza e malinconia convivono, non sempre pacificamente, con la letizia e la gioia; ci aiutano cioè a comprendere che neppure una vita come la sua, ricca di soddisfazioni e successi, è sufficiente a colmare quella voragine di desiderio cui il cuore aspira e per la quale è fatto.
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