Se dobbiamo a Paolo VI e – prima ancora – a Pio XII una decisiva apertura della Chiesa verso l’arte moderna, è al domenicano francese Marie-Alain Couturier (1897-1954) che va tutta la nostra gratitudine per l’ardita iniziativa di cui si rese promotore nella prima metà del secolo scorso: interpellare cioè “geni senza fede che accettarono di mettere il loro talento a servizio della Chiesa”. Avere infatti relegato in secondo piano le questioni estetiche ed essersi tra l’altro rivolti ad artisti mediocri, aveva interrotto – a detta del Couturier – quel contatto con il bello in forza del quale l’arte cristiana era stata, nei secoli passati, indiscussa protagonista. Si trattava dunque di riconciliare al più presto il genio artistico contemporaneo con la bellezza, restituendo così alla Chiesa quella peculiarità che sembrava avere in qualche misura smarrito.



È proprio grazie alle relazioni pazientemente tessute da questo domenicano francese che oggi possiamo ammirare nella regione dell’Alta Savoia, o lungo la fascia costiera della Provenza, opere di artisti illustri come Léger, Chagall, Braque, Matisse; opere di grande respiro, capaci di impreziosire il silenzio religiosamente austero di certe chiese pensate dal genio innovativo di architetti come ad esempio Le Corbusier, per citare solo il più noto.



Anche Vence, in Provenza, fu teatro del coraggioso tentativo di aprire quel dialogo tra artisti contemporanei e arte cristiana. Dedicata al Santo Rosario e costruita a metà 900 dall’architetto Auguste Perret, la cappella di Vence venne interamente decorata da Henri Matisse. Ad opera ultimata, l’autore stesso ebbe a dire: “Voglio che chi entra nella mia cappella, si senta purificato e liberato dai propri fardelli”.

Sulla parete di fondo, Matisse diede vita ad una Via Crucis davvero singolare. Secondo padre Couturier, amico e confidente dell’artista, si trattava dell’opera più importante e significativa presente tra quelle mura.



Colpisce come Matisse, da sempre innamorato del colore, abbia invece ricoperto di segmenti neri, frammentati e nervosi, la “grande pagina” bianca di questa parete: “segni violenti” li definisce il Couturier, somiglianti ad una “calligrafia alterata con lettere scritte di fretta sotto l’effetto di un’emozione troppo grande”.

Nel realizzare quest’opera l’artista, ormai vecchio, utilizza forme scabre ed essenziali, limitandosi a proporre una fitta ragnatela di nitide figure le cui sagome disegnano, in una progressione vibrante ed incisiva, i quadri icastici delle quattordici Stazioni, quelle che da secoli la Chiesa ha consegnato alla pietà popolare perché imparasse la pietà per Cristo.

È lo sguardo d’insieme quindi a prevalere sull’analisi puntuale dei singoli elementi e l’occhio viene di colpo catturato dal vorticare dei personaggi che, straziati, si accalcano tutti sulla scena del dramma. Il “non detto” vince così sul narrato ed ogni Stazione ci mostra l’essenza del gesto più che il suo dispiegarsi. È dunque la memoria a guidare il percorso dello sguardo, quello sguardo che, da subito, riconosce Gesù ritto di fronte a Pilato, Gesù caricato della croce, Gesù per tre volte accasciato sotto il peso del legno.

I segni che traccia Matisse sulla parete sembrano prolungare il gesto di chi, inflitta una ferita, torna per mendicare una grazia e il suo grido è tale da squarciare lo spazio circostante fino a renderlo sacro.

“Quando leggo questi segni violenti – rileva ancora il Couturier – colgo che non c’è stato né tempo né volontà di definire i dettagli o scegliere le parole. […] In nessun’altra opera ritrovo una violenza simile, una analoga, totale assenza del minimo scrupolo di bellezza: qui nulla è predisposto per il piacere della visione”.

Perché l’arte sacra ritornasse dunque a brillare, occorreva rifuggire da una bellezza estetizzante per arrivare invece a concepire l’arte come un vero e proprio linguaggio. Fu lo stesso Matisse ad intuirlo e fu il Couturier a precisare i termini di tale intuizione: “L’arte è un linguaggio, non un ornamento”.

Solo a queste condizioni, forse, la Chiesa avrebbe ritrovato il senso del bello: non più fronzoli e orpelli, ma l’imporsi della verità dei segni.

In questa prospettiva anche le parole rivolte da Paolo VI agli artisti (23 giugno 1973), si colorano di un accento più vero: “Diciamo apertamente: esiste ancora, esiste anche in questo nostro arido mondo secolarizzato […] una capacità prodigiosa (ecco la meraviglia che andiamo cercando!) di esprimere, oltre l’umano autentico, il religioso, il divino, il cristiano”.

(Le citazioni di padre Marie-Alain Couturier sono tratte da L’Art Sacré, luglio-agosto 1951, in Un’avventura per l’arte sacra, Jaca Book 2012).

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