“Chi sono io? Non sono né Michelangelo, né Mozart, né Haydn o Goya, ma semplicemente un certo Chagall di Vitebsk”. Così amava definirsi Marc Chagall (1887-1985). E precisava: “Io sono un piccolo ebreo di Vitebsk. Tutto ciò che dipingo, tutto ciò che faccio, tutto ciò che sono, altro non è che il piccolo ebreo di Vitebsk”. Come a dire che la sua esistenza, la sua arte, le sue scelte, erano strettamente legate alla cittadina ebraica dell’Impero zarista dov’era nato e cresciuto, da cui non si distaccherà mai del tutto e che gli rimarrà sempre nel cuore. La nostalgia dell’infanzia, del suo borgo, del suo popolo, caratterizzeranno le sue opere come un’unica, grande tavolozza. Affermava che “Vitebsk è un posto diverso da tutti gli altri”. Era “una città singolare, infelice, noiosa”, ma pur sempre la sua patria, dove erano le sue radici profonde, con “decine, centinaia di sinagoghe – semplici ed eterne – macellerie, gente per strada”. Ammetterà: “Io sempre tornavo con il pensiero, nella mia anima, al mio paese natale. Ho vissuto guardando indietro, voltando la schiena a ciò che avevo davanti a me”.



A uno dei più amati artisti contemporanei, celebre per il suo straordinario mondo fantastico e le cui vicende personali si intrecciano con la complessa e drammatica storia del Novecento (l’urbanizzazione e la secolarizzazione, la Rivoluzione russa, le due guerre mondiali, la migrazione forzata di milioni di persone), è dedicata la mostra Marc Chagall, una storia di due mondi, con opere provenienti dalla collezione dell’Israel Museum di Gerusalemme, e aperta al Mudec di Milano fino al 31 luglio. Esposizione centrata sulla sua vasta opera grafica e che approfondisce lo stretto rapporto con la cultura ebraica. Vitebsk (oggi in Bielorussia) era uno fra le migliaia di insediamenti dell’Europa orientale detti shtetl, dove gli ebrei vissero a partire dal secolo XVIII, perché era loro proibito stabilirsi nelle grandi città e coltivare la terra. Comunità chiuse e conservatrici, vi si conduceva una vita modesta ma dignitosa, grazie a un’efficace rete di solidarietà e mutuo soccorso. I residenti potevano comprare prodotti dagli agricoltori, lavorarli e rivenderli. Il tessuto sociale e culturale era ricco e sviluppato.



Marc (nome ebraico Moishe Segal, in russo Mark Zacharovič Šagal) era il primogenito di nove tra sorelle e fratelli. Il padre, uomo giusto e pio, lavorava nel magazzino di un negozio di aringhe, spostando tutto il giorno pesanti barili (“sempre stanco, preoccupato, non c’erano che i suoi occhi a dare un riflesso di luce, d’un azzurro grigiastro”). La madre proveniva da una famiglia che lavorava nel commercio del bestiame e gestiva una piccola bottega dove vendeva un po’ di tutto. Aveva ereditato da lei lo spirito inquieto. “Mamma… vorrei fare il pittore”, le confessò un giorno, suscitandone la contrarietà. Nella produzione pittorica di Chagall e nell’autobiografia La mia vita, scritta a 35 anni, emerge un grande affetto per la sua terra. La Rivoluzione del 1917 abolisce le “zone di residenza” degli ebrei (dove appunto era loro permesso stabilirsi), accelerando così il declino dello shtetl, che sarà completamente distrutto un quarto di secolo dopo durante l’occupazione nazista. Ma al giovane Chagall l’amata Vitebsk e la Russia (aveva studiato per qualche anno a San Pietroburgo) cominciavano a stare strette.



Rivolgendosi a Dio, il giovane Chagall chiedeva: “Non vorrei essere uguale a tutti gli altri: voglio vedere un mondo nuovo”. Per aggiungere, con amarezza: “Vitebsk, ti abbandono. Restate soli con le vostre aringhe”. Nel 1911, ventitreenne, giunge a Parigi grazie a una borsa di studio. Il primo soggiorno dura quattro anni, e avviene l’incontro con le avanguardie: Fauves e Cubismo. Vi tornerà dopo la Rivoluzione bolscevica, che prima lo entusiasma ma poi lo delude. Infatti la sua poetica non era capita. Di fronte ai suoi dipinti dove campeggiavano un cavallo volante e una vacca verde, i dirigenti sovietici gli chiedevano: “Che rapporto c’è con Marx e Lenin?”. A documentare il fecondo incontro con la letteratura, al Mudec ci sono anche le acqueforti che illustrano Le anime morte di Gogol, unico autore di cultura russa che l’artista abbia illustrato. L’ebreo Chagall ha infatti colto nell’ucraino di nascita Gogol uno sfondo non razionale e visionario in cui si riconosce, certo che “tutto il nostro mondo interiore è realtà, forse anche più reale del mondo apparente”.

Alimenta l’espressione artistica di Chagall la sua lingua madre, lo yiddish, che a partire dal IX secolo si era diffusa nelle comunità ebraiche lungo il Reno, per poi espandersi in tutta Europa. Lo yiddish combina elementi ebraici con la grammatica e il vocabolario tedeschi. È una lingua popolare, ricca di sottigliezze, giochi di parole e doppi sensi; per questo si parla di umorismo yiddish, fortemente presente nel pittore di Vitebsk. Per lui era molto più che una lingua, era un mezzo di autoidentificazione, che manteneva viva la cultura che aveva assorbito nello shtetl (il villaggio ebraico). Uno dei più famosi simboli dell’amore in Chagall sono gli innamorati raffigurati con ironia mentre fluttuano felici nell’aria: chiara metafora della condizione degli ebrei nell’Impero russo. Dal momento che non era loro concesso acquistare terreni non erano radicati ma appunto luft yidn, “ebrei d’aria”. L’artista ci presenta con tratti di fine umorismo anche le feste ebraiche: Yom Kippur (Giorno dell’Espiazione); Rosh Hashanà (Il capodanno ebraico); Shabbat (il Sabato); Sukkot (Festa dei Tabernacoli).

Oltre ai ricordi dell’infanzia in Russia e l’attaccamento alla “Yiddishkeit” (la cultura popolare yiddish) importanti fonti di ispirazione furono naturalmente la Bibbia e, in seguito, il dolore per il destino e le sofferenze degli ebrei dell’Europa orientale, senza dimenticare l’amore per la prima moglie Bella, appartenente a un’agiata famiglia di commercianti, che influenzò in modo significativo la sua arte: “Io aprivo soltanto la finestra della stanza e l’aria azzurra, l’amore e i fiori entravano con lei”, dirà.

Nel secondo dopoguerra, dopo un periodo di sette anni trascorso negli Stati Uniti, torna in Europa e riaffiorano la nostalgia e l’identificazione con un mondo che non esiste più. Scriverà che gli ebrei della sua terra natale “vagano nell’aria/alla ricerca di una dimora”. In realtà “abitano” nella sua anima, non l’hanno mai lasciata. Nel suo lungo percorso artistico non si è mai sentito solo. A Gerusalemme, nel 1962, dirà che lo hanno guidato “le povere mani dei miei genitori, e di altri ancora, che a labbra mute e a occhi chiusi si accalcavano e sussurravano alle mie spalle”.

Chagall si è sempre sottratto alle effimere avanguardie e alle ideologie dominanti perseguendo un orizzonte infinito. “Io non vivo alla giornata”, sosteneva, “ma mi attraversano i venti dell’eternità”. E ancora: “Nonostante tutti i problemi del nostro mondo, nel mio cuore non ho mai rinunciato all’amore nel quale sono stato cresciuto né alla speranza nell’amore. Nella vita, proprio come nella tavolozza di un artista, c’è un solo colore che dà senso alla vita e all’arte: il colore dell’amore”.

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