Di fronte al Cristo del Tributo, non è difficile immaginare quanto fosse intensa la familiarità di Masaccio con il Mistero. È raro, infatti, reperire nella tradizione iconografica a lui antecedente e successiva artisti che abbiano saputo rappresentare con altrettanta maestria i “tratti inconfondibili” dell’uomo Gesù di Nazareth: un’austera regalità cui s’accompagna una tenerezza commossa.
Non sarà stato certo un caso se così spesso Giussani chiedeva, al popolo di CL, di fissare quel volto e di lasciarsi ferire dalla muta paternità di quello sguardo. Lo sguardo di un uomo – perché Masaccio ha voluto dipingere proprio un uomo – che penetra la realtà circostante con la lucida consapevolezza di chi ne possiede l’origine e il destino. Quella di Gesù è infatti, come recentemente ha ricordato qualcuno, “una diversità umana che perfora la crosta dell’abitudine”. Masaccio ha saputo offrire ai nostri occhi spesso scettici e disincantati il fascino e l’intensità dell’imprevedibile impatto con il Mistero: un uomo la cui “autorità morale” – così ebbe a definirla il Longhi – si impone per il fatto stesso di esserci.
Ma se, dalla singolare attrattiva di questo volto, proviamo ad abbracciare il respiro vibrante dell’intero affresco (opera del giovane Masaccio e del vecchio maestro Masolino da Panicale, Firenze, Cappella Brancacci, navata destra della Chiesa di Santa Maria del Carmine), a sorprendere sarà l’armonioso equilibrio che lo connota: Gesù, al centro dell’opera, è circondato da una ristretta cerchia di discepoli: spiccano, fra loro, la vigorosa personalità di Pietro e la delicata finezza di Giovanni. Pietro asseconda il comando del Signore riproponendo quasi istintivamente la Sua mossa. È così che la scena si arricchisce di nuovi elementi: sull’estrema sinistra, in secondo piano, scorgiamo l’apostolo rannicchiato sulla riva del lago tutto intento a recuperare dalla bocca di un pesce la moneta d’argento destinata al giovane esattore che, sulla destra dell’affresco, è pronto a riceverla dallo stesso Pietro come tassa versata per l’oro del tempio (cfr. Mt 17,27). Non trascura nessun dettaglio, Masaccio, che narra l’episodio e ne descrive lo svolgimento utilizzando il medesimo spazio pittorico e la medesima “scenografia” dei palazzi e delle vie di una Firenze già quattrocentesca, quasi a sottolineare la misteriosa contemporaneità di Cristo che, con la Sua presenza, ha salvato e salva il presente del tempo.
Ad occupare lo sfondo, rilievi grigiastri privi di vegetazione giocano forse un ruolo decisivo nello spingere il riguardante a concentrarsi sull’evento in primo piano e sul ruolo dei suoi protagonisti. La luce, calda e radente, investe e plasma il gruppo centrale: peso e volume delle imponenti corporature, accentuati sia dal ricco panneggio di tuniche e mantelli sia dalle variegate colorazioni che contribuiscono ad animarli, segnalano che Masaccio ha ormai imboccato la via degli “uomini nuovi”, come li chiama il Longhi nel suo Da Cimabue a Morandi. Possiamo definire geniale l’intuizione del critico quando ipotizza che Masaccio, ispirandosi alla Commedia, abbia riflettuto sul passaggio di Dante dall’Inferno “ove è privazione di luce e pertanto anche d’ombra, alla luce australe del monte del Purgatorio”. Solo lì Dante potrà infatti venir riconosciuto come corpo vivo: dall’ombra cioè che di sé stesso proietta. Si può quindi a ragione sostenere con il Longhi che l’intenzione profonda di Masaccio fu quella di “risanare con l’ombra la pittura stessa”. Anche per questo lo spazio dell’affresco “viene abitato da gente nuova ed energica […] non intesa ad assolvere teneramente e a condannare atrocemente in effigie, ma ad agire fortemente e di persona, in ogni grado”. Masaccio, pertanto, non si limitò ad evocare la scena evangelica del Tributo, ma – rileva ancora il Longhi – “intese presto che gli apostoli potevano ormai comparire per le vie di Firenze e del contado”.
Ecco dunque svelata, in quest’ultima annotazione, la cifra superlativa che Masaccio ha offerto alla pittura italiana e all’arte di ogni tempo. Non sembra quindi fuori luogo utilizzare per ciascuna delle sue opere la parola “avvenimento”: il riaccadere cioè imponente e definitivo di un fatto che si prolunga nella Storia fino a raggiungere il nostro quotidiano permettendo così, a chiunque non abbia mortificato del tutto il desiderio, di viverlo persino da protagonista.
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