Abbiamo da poco compreso che una famosa tela di Piet Mondrian (1872-1944), dedicata a New York come tante composizioni del pittore olandese, è stata per decenni esposta al contrario rispetto al verso che aveva immaginato il suo talentuoso pittore.

L’episodio in sé poco dice dell’artista, al secolo Pieter Mondriaan. Semmai, molto più ci dice sui vezzi di certa arte (e certa critica) che ha sempre beffardamente caricaturalizzato l’originale fondatore di De Stijl, la rivista che consacrò alle indagini teoretiche sulle arti figurative.



Epigoni e critici hanno largheggiato nel ridimensionare la proliferazione astratta di quadranti e cromatismi nell’ultimo Mondrian, perché ne hanno fatto il pioniere di loro stessi, l’alfiere di un’arte tutta e solo concettuale. Una concettualizzazione volutamente criptica, occulta, compiaciuta di ripetersi.

Si tratta indiscutibilmente di un errore prospettico non di poco conto, se rapportato a un artista che ha elevato la sua pittura a un programmatico neoplasticismo e a una mai rinnegata formazione giovanile nella teosofia. Peraltro, la teosofia, esaltazione di verità oltre gli schemi prescrittivi delle religioni organizzate, ha conosciuto eccessi e fascinazioni esoteriche che non riusciamo a rimproverare a Mondrian; molto più solido della teosofia manierata che praticavano spicchi di classe abbiente nell’Europa settentrionale e molto meno estremista e sincretistico delle teosofie dell’Estremo Oriente, nate in contesti culturali significativamente diversi dal Nord Ovest protestante.



Mondrian, ancora, passa da periodi differenti, che solo in parte si colgono dalla rilettura della sua biografia. Ci sembra piuttosto riguardino la sua concezione dei rapporti tra giustizia, legge e verità. Negli anni Dieci del XX secolo gli alberi che ritrae, catturino il rigido inverno o l’infuocato tramonto rigoglioso di vita, rappresentano piante che sono in tutto e per tutto la radice che le origina. Così succede ai mulini raffigurati in quel decennio e oltre: segni di essenzialissima organizzazione umana, che penetra la natura nell’amministrazione degli spazi di vita.

Alle composizioni geometriche arriva in fondo tardi, issandole a baluardo della sua opera tra gli anni Venti e la fine dei Trenta. Lo porta a ciò solo in parte il contatto con la pastosa consistenza del cubismo: il cubismo rompe gli argini della regola, indica l’insufficienza della formale regola posta rispetto alla dinamica della vita. Mondrian sta un passo oltre: fa della linea il punto nodale della sua critica all’alienazione. Vecchia accademia e nuovo rampantismo commerciale non sono rivali che sulla carta, stormi diversi che migrano nello stesso periodo. A entrambi quei mondi (e modi) del potere rimprovera la rimozione della verità dal discorso civile. L’accademia si è chiusa nelle formule, contestualmente così rinunciando alla forza del suo apparato critico, agli accenni di una riflessione interculturale sui paesaggisti giapponesi, sulle sculture africane e sulla composizione della figura nel mondo latinoamericano, che invece era nota almeno in parte a impressionisti ed espressionisti. Bisogna allora che Mondrian urga quell’arte e quella critica a tornare alle immense possibilità espressive dei colori primari.



Ai valori monodimensionali del capitalismo novecentesco, prossimo a rielaborare la propria crisi sotto i gendarmi del totalitarismo, risponde proprio nel periodo americano. L’America che vede non è quella atavica, radicale, protestante quanto infatuata, di Melville (o del primo Pound). È già l’America che edifica la metropoli, progetta le vetrine, i porti, i giochi di luce artificiale, le meravigliose città che non dormono mai, dimenticando forse così la capacità di sognare, di creare un senso oltre che di restituirselo. Fretta che produce forme di vita, regimi giuridici, diritti contrattuali, standard psicofisici, universalizzazione particolaristica (tutti uguali finché si porta lo stesso cappello), ma sempre fretta è, sempre di fretta si tratta.

A ben vedere, una delle più rilevanti forme di continuità nella ricerca estetica di Mondrian è data dall’intuizione delle linee, del loro gioco nello spazio per dettare le forme e le figure. Si è detto che gli esordi giovanili sono connotati da una passione per l’impressionismo tardo, includendo anche temi sociali (dai paesaggi ai borghi, dalle nature alle figure), contro-sorpassata soltanto dall’amore per la critica filosofica e metafisica. Confrontiamo rami, donne, volti e viottoli del primo periodo con la riproduzione incessante di proiezioni e geometrie lungo scale di colori di tutta la notoria fase angloamericana. La pulizia di tratto, la restituzione radicale di verità del metodo (e nel metodo) che viene dalle linee, sono figlie evidenti della stessa mano, della stessa mente, della stessa anima.

Siamo dunque tornati al punto di partenza: l’ansia di fare di Mondrian un canone di ortodossia – l’indecifrabile che esclusivamente da sé detta il codice della propria verità – ha bellamente travolto tutto quello che sta dietro. La tela che sola organizza esagoni e rombi nel buco del ragno. Non solo guscio: una legge che non ricerca la verità e diventa esercizio, che non persegue la giustizia e diventa ripetizione muscolare, diventa un frutto velenoso.

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