Un filo sottile lega bellezza e menzogna. Regali illusioni che hanno imparato progressivamente a scrutarsi e a completarsi, ad invocarsi l’un l’altra quando il volto delle realtà appariva fin troppo truce per essere raccontato nella sua sconvolgente interezza. Baluardi di un’umanità che, rifiutando ostinatamente le ombre della propria esistenza, ha ammantato sé stessa di parole suadenti e simboli vertiginosamente sublimi, ma soprattutto di confortanti e imperturbabili raffigurazioni estetiche. E quale espressione del genio umano, se non l’arte, poteva assurgere a vertice di questa costruzione? Dove mai avrebbe potuto consumarsi questo ricorso estremo e disperato alla piacevolezza dello sguardo e del sentimento se non nell’opera appassionata di un pittore o di uno scultore? Maestri di una salvifica dissimulazione, capace di smussare e risolvere le irrisolvibili contraddizioni del reale in un incantato e luminoso trionfo di armonie, di elevare le fragili e scricchiolanti contingenze fino alle vette dell’immortalità.
Ecco cos’è l’arte: un tentativo collettivo, nobile e istintivo di redimere le colpe della storia. O, forse, sarebbe il caso di dire: ecco cos’è stata l’arte fino alle soglie del ’900. Fino al momento in cui la bellezza si è rivelata inadeguata, incongruente. Quando a prendere il sopravvento è stata, piuttosto, la bruttezza. Quando quello che sembrava un ossimoro irrealizzabile si è rivelato, invece, un radicale disvelamento. Una chiave interpretativa profonda e onesta dei mali che affliggono il nostro tempo. Prodromo diretto non soltanto di tutta la produzione figurativa contemporanea, ma anche profetica avvisaglia sulla nascita della nostra controversa società.
Die Brücke. Ovvero, “Il ponte”, immagine per eccellenza della transizione, del passaggio. Fu questo il nome del movimento d’avanguardia tedesco che portò a compimento una rivoluzione di tale portata. Figli dell’agitazione post-impressionista e dello sconquasso epistemologico provocato da Friedrich Nietzsche, la loro parabola si esaurì in meno di un decennio. Ma non per questo il suo corso risulto menò saettante. Anzi, proprio nell’anno che sancì la separazione del gruppo, il 1913, il loro lascito apparve in tutta la sua dirompenza. A Berlino, infatti, Ernst Ludwig Kirchner realizzò Cinque donne per strada, ritratto impietoso e scottante di una società che di lì a poco, soffocata da parossismi e divisioni, sarebbe sprofondata nell’orribile baratro della guerra.
Nel verticalismo esasperato delle figure, pallide e mostruose citazioni di un gotico ormai estinto, non si scorge alcuna nobiltà, alcuna purezza di intenti e di portamenti. Solo volti famelici e scarnificati, spigolosi e animaleschi vortici di perversa voluttà, si offrono allo sguardo attonito dello spettatore. Che presto, tuttavia, mentre lo scorcio di una ruota d’automobile incombe incarnando la mortifera e degradante prepotenza del progresso, si ritrova inconsciamente catturato, attratto, inglobato in quella inumana processione. Parte integrante, se non pienamente colpevole, di quella bassezza senza fondo.
Una bassezza che certo risente della scelta di concedere le luci della ribalta a cinque prostitute intente a procacciare la loro clientela, ma che, al tempo stesso e ad un livello di lettura ulteriore, si staglia negli inquietanti dettagli cromatici e stilistici sapientemente mescolati da Kirchner. Perché il soggetto, a ben guardare, non ritrae la decadente periferia di una metropoli, né delle povere sfruttate. È una scena d’alto borgo. Una scena che ritrae, insomma, delle ricche che vogliono esserlo ancora di più. La loro voracità carnale è la manifestazione più evidente di un appetito ben più radicato e spropositato: quello per il guadagno. L’intera opera appare perciò consunta e consumante, come se un velo di scandalosa tristezza la circondasse. Come se l’aria ammorbata, ingiallita, acida, perfetto riflesso cromatico di una bieca avidità, penetrasse le nostre ossa e le contagiasse con qualcosa di tanto disgustoso da non trovare un corrispettivo linguistico.
Nell’individualismo esasperato di quelle arpie omeriche travestite da signore, nel loro ignorarsi e nel loro procedere spedite e senza indugio, nei loro occhi privati di qualsiasi luce, nei loro corpi irrigiditi di burattini senz’anima, c’è tutta la rovina sotterranea che sarebbe stata scoperchiata dalle guerre. Ma anche tutta l’ipocrisia dei nostri giorni, spesi a prostrarsi dinanzi all’altare dell’utile senza curarsi neppure dell’apparenza. Ad arrampicarsi sulle debolezze degli altri in nome del proprio profitto. A fare della bruttezza non un rimpianto transitorio per la bellezza perduta, ma una condizione permanente e diffusa. Un binomio rovesciato e inseparabile. Una categoria dello spirito che ha finito per plasmare l’arte. E, di conseguenza, la vita.
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