È facile lo facciano gli attori o gli scrittori, è curiosamente strano lo facciano ad esempio i giuristi e i pittori: ritagliarsi il momento per guardarsi da fuori, per capire se la propria arte (e la loro tecnica: due nozioni mai sovrapponibili eppure mai disgiunte) abbia un futuro e di che tipo. Dalla seconda metà dell’Ottocento, i pittori hanno imparato a farlo attraverso i manifesti, ma due obiezioni si impongono: cos’è un secolo e mezzo nella storia millenaria del talento artistico? E, soprattutto, i manifesti delle arti figurative hanno davvero sempre evitato la propaganda a favore dell’autocoscienza? Persino le avanguardie novecentesche, sempre (loro e nostro malgrado) più periferiche, non possono dirsi monde da ogni peccato di altezzosità e presunzione.



Se dovessimo industriarci a trovare una paradigmatica eccezione, dovremmo verosimilmente bussare alle porte di Andrea di Cione di Arcangelo, detto l’Orcagna (1308-1368). Intelligenza il Nostro deve averne avuta parecchia. Uomo della prima metà del XIV secolo, quanto alla sua cassetta degli attrezzi è già un rinascimentale vero. Dipinge, scolpisce, architetta e progetta: la continuità umanistica delle arti figurative giunge a compimento. È il prequel dell’uomo vitruviano di Leonardo. E l’Orcagna non è estraneo ai rapporti politici dell’epoca guelfa. Se usassimo la sua biografia come un Gps della storia, vedremmo in filigrana il potere d’Italia nel suo rapporto con la cultura.



Tra il 1352 e il 1359 le cronache ce lo indicano capomastro alla oggi sottovalutata Chiesa di Orsanmichele. Poco a seguire lo è ad Orvieto, centro vitale di quel Trecento umbro dove il discorso di fede e di spirito impone la sua metafisica all’immaginario mondano. Le sue committenze mature e le sue collaborazioni senili segnano un’epoca e pazienza se ne resta traccia troppo tenue nella manualistica. Alcune sue opere stanno con merito nella serie dei capolavori illustri, eccedono la fama del loro autore meditabondo e laborioso insieme. Qui ne ricordiamo tre, peraltro d’età matura, quella alla quale la critica anche d’oggi riconosce più l’erudizione e non anche l’inventiva; il che, ça va sans dire, non è sempre vero, anzi.



Tra il 1343 e il 1349 è autore di una celebre “Cacciata del Duca di Atene”. L’Orcagna anticonformista, sì, ma anticonformista dei tempi suoi: la simbologia è sempre quella del linguaggio politico trecentesco, di Dante Alighieri e Farinata; è l’avversario spoliato, defenestrato, cacciato. È l’infiltrazione del codice cavalleresco nella civiltà comunale. È la sconfitta dei demoni per il bene dei popoli. Nel 1357, alla Cappella Strozzi, dimostra un’appassionata composizione delle figure anche in soggetti classici come il Cristo in trono e i Santi. Anzi, se forse qui e non altrove l’immagine rimane più oggetto al piano che soggetto in azione, ciò avviene perché è l’Orcagna stesso stanco più che schiavo della convenzione stilistica. Il che si vede ancor meglio nel collaborativo trittico di San Matteo del 1367: opera ultima, e nel vero senso dell’ultimo approdo della coscienza strutturata ma irrequieta. Una ricerca esistenziale e anche eminentemente pratica che approda ai redenti che la redenzione hanno trovato codici e lingue per comunicare. Non facciamone un ragionatore, piuttosto un uomo in cammino.

La critica ha spesso scambiato il maggiore sperimentalismo dei primi decenni per superiore audacia, ma quella inchiesta sui propri stessi mezzi serviva a trovare non un canone qualsiasi, ma il canone di sé, la cura del sé nel significato foucaultiano del termine. Non c’è guerra tra adolescenza e vecchiaia, non c’è impeto contro mestiere, non c’è estasi contro razionalità, e proprio la storia dell’Orcagna ce lo dimostra impagabilmente.

Appena trentenne, il nostro Andrea propone e promuove un vasto dibattito fiorentino sul futuro della pittura alla morte di Giotto, come se sentisse di dover chiamare a raccolta il passato per proiettare la transizione al futuro. Secondo linguisti, storici e letterati, invece, persino ormai prossimo al trapasso, non avrebbe perso il gusto della rima ridicola, gaudente, erotica, sin quasi all’osceno e all’oscuro. Salvo ricordarsi che quel frasario triviale, da osteria sotto al ponte, significava nella grande cultura toscana del XIV secolo pure grande padronanza di onomatopee e assonanze e soprattutto un liberatorio scherno alla Siena ghibellina. Il pittore che inizia a ragionare su di sé è lo specchio dell’uomo che non ha mai finito di fare lo stesso. 

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