C’è ancora tempo (poco) per potere visitare la straordinaria mostra “Annibale Carracci. Gli affreschi della Cappella Herrera” a Palazzo Barberini, a Roma, fino al 5 febbraio. Di là dal format in oggetto, che timbra un periodo e un tema specifici nella produzione del pittore bolognese, questa esposizione ha il merito di consentire un allargamento più complessivo sulla straordinaria qualità e rilevanza di un solo in parte riconosciuto maestro del Seicento italiano.
In primo luogo, definirlo come uno degli ispiratori del XVII secolo è già riconoscergli l’attitudine a vivere il suo tempo proiettandosi nelle sue più plastiche rappresentazioni. Carracci nasce nel 1560, muore nel 1609; dal 1605, attraversa un prostrante stato depressivo che dirada l’opera, altrimenti sino ad allora inconsuetamente prolifica. Molte sono state le ricostruzioni e forse del vero c’è in ognuna: il risentimento per la scarsa gratitudine dei committenti, le vicissitudini sentimentali spesso distanti da sogni e desideri del Nostro, l’avere addirittura potuto contrarre la sifilide (morbo afflittivo, in specie allora, nel più evidente e avvilente senso psico-fisico).
La grandezza di Carracci inizia dal calendario della sua biografia, più esatto e attendibile di un marcatempo: non è né l’uomo della Controriforma, né uomo del Barocco. L’ufficiale presa d’atto con cui la Chiesa di Roma riorganizza la sua presenza e il suo ordinamento dopo lo scisma protestante è il Concilio di Trento: un poderoso momento di elaborata e convinta resistenza alla critica demolitoria luterana sui sacramenti, sulla cura delle anime, sull’apporto umano alla dottrina della salvezza. Ne restano fuori soltanto le questioni interne che avrebbero ulteriormente dilatato e accidentato la conclusione dei lavori: il rapporto tra il pontefice e l’episcopato e tra il pontefice e i sovrani cattolici. Due “dossier” di cui la storia del tempo avvertiva l’urgenza ma anche i mutamenti che non avrebbe visto sul campo quella generazione. Fatto sta che il Concilio si conclude nel 1563, quando Carracci ha tre anni; i frutti più maturi del Barocco europeo il pittore nemmeno li vedrà. La Controriforma è troppo presto, l’evoluzione urbanistica e culturale della Roma secentesca (e di tutto il Centro Italia) sarà più in là: a Carracci riesce, insomma, di dare nuovo nerbo e sostanza a un clima teologico e artistico che si forma quando ancora il suo genio non si è rivelato e di esprimere e rappresentare un secolo (il XVII) di cui vede, e poco, soltanto l’inizio.
Carracci vuole tornare alla realtà della pittura e in polemica con Vasari confuta il suo giudizio sprezzante sulla preservazione delle tecniche tradizionali: esse, anzi, di fronte ai recenti studi sulla figura, alla riscoperta di soggetti classicamente religiosi e al nuovo humus urbano e cortigiano del vivere civile, possono godere di un impattante, enorme, slancio in avanti. L’Accademia fondata dai tre fratelli Carracci è ricordata come “accademia degli Incamminati”, che già iscrive una splendida similitudine di risveglio spirituale, ma programmaticamente doveva chiamarsi “Accademia del Naturale”. Non è la natura del panteismo, o il primato del giusnaturalismo riformato nord-europeo, o ancora la natura secondo principi di umana ragione: è, semmai, la natura che ritorna a potere fisicamente esprimere su tela la propria intima realtà.
Il precursore del Barocco, il sodale stilistico dei Rubens e dei Caravaggio, non disprezza i toni accesi o elaborati sul quadro, ma la sua mente e la sua mano vuole pulite ed essenziali. È una teologia della carne restaurata dalla boria degli imitatori e dall’aberrante oblio dello svuotamento di senso e di sensi. Questo ci comunica la Grande Macelleria ritratta nel 1585, tra lavoratori dal viso torvo, carni esposte, toni cupi; questa è la vittoriosa e quasi accecante Crocifissione con Santi di appena due anni prima. Questo, ancora, è la mitologia latina di Romolo e Remo allevati dalla lupa, quando la cultura della romanità scopre che può essere letta e introiettata nel quadro della fede, senza steccati tra umanesimo e precettistica, tra paganesimo e rivelazione. Questa ha fatto seguito a quello e, come dimostra la disciplina giuridica del Senato romano tardo-cristiano, lo ha addirittura “inculturato”.
Il vecchio canuto, ritratto sul finire del XVI secolo, esprime una forza narrativa pari allo straordinario incontro tra il Cristo e la Cananea (del 1595). Lì la fede carracciana emerge con un nitore senza pari: è una fede nell’incontro, è verbo in cammino al prossimo, è postura, regola, ma soprattutto vita. I nobili di Carracci, i suoi satiri, i suoi paesaggi biblici trasposti dalla Scrittura ai borghi italiani, mettono in luce un artista al controllo pieno dei propri mezzi espressivi: un controllo che ha necessità, talora, della cedevolezza, dell’indulgenza, della carità, della fattualità. Gli affreschi della Cappella Herrera lì ci conducono: tra il divenire dei tempi e un messaggio che i tempi eccede e valica.
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