Lo scorso 10 giugno è stata inaugurata a Montreux in Svizzera la mostra “Andy Warhol – Pop Art Identities”, una rassegna tra le più complete e vaste mai dedicata al genio americano della pop art. Sarà aperta fino al 29 agosto, ma come ci ha detto in questa intervista Massimo Ferrarotti, critico d’arte, presidente dell’Associazione Culturale Spirale D’Idee, ideatore di eventi pubblici nei più importanti musei italiani ed internazionali e di consulenze artistiche e di strategie di valorizzazione per numerosi gruppi europei, “ci sarà poi una seconda tappa a Basilea sempre in Svizzera, mentre stiamo già prendendo accordi per portarla prossimamente a Roma”.
Composta da 160 tra quadri, opere varie e anche filmati, è divisa in un percorso di diversa natura “proprio per mostrare le varie facce dell’identità commerciale a artistica di Andy Warhol” ci ha detto ancora Ferrarotti. Curata da Maurizio Vanni, è stata resa possibile grazie al prestito di molte opere della collezione privata di Stefano Pirrone, operatore culturale e mecenate d’arte moderna e contemporanea, presidente onorario Fondazione Vaf, “che ha contribuito non solo con il prestito gratuito delle sue opere, ma anche dando un contributo scientifico, un aspetto importante nel rendere – come dice lui – fruibile a tutti la bellezza dell’arte”.
La scelta di Montreux è stata data dal fatto che Andy Warhol realizzò insieme a Keith Hearing il manifesto ufficiale del celeberrimo festival jazz che qui si tiene da decenni?
C’è un duplice motivo, il primo è senz’altro questo. Il secondo è che questo festival internazionale ci ha dato la possibilità realizzare finalmente un progetto editoriale in tre lingue. Pubblicarlo solo in italiano ci sembrava un po’ limitante. Siamo così riusciti a realizzare un catalogo in francese, inglese e russo e questa possibilità ha portato a scegliere come sede della mostra come prima tappa Montreux. Ce ne sarà infatti una seconda sempre in Svizzera però a Basilea.
C’è la possibilità che venga portata anche in Italia?
Assolutamente sì, vogliamo fortemente portarla a Roma. C’è già un accordo di massima, poi più avanti inizieremo a declinare il periodo e la mostra sarà probabilmente anche ampliata di nuove sezioni.
Questa mostra è una delle più complete della grande mole di lavori prodotti da Andy Warhol. Ce la può presentare?
La mostra comprende diverse sezioni che raccontano le diverse identità del progetto grafico, pittorico e editoriale di Warhol. Vengono raccontate grazie al lavoro editoriale di Maurizio Vanni e soprattutto grazie all’intervento di Stefano Pirrone che ci ha prestato molte opere della sua collezione privata. Si parte dai ritratti, fruibili attraverso immagini alcune delle quali già conosciute, da Mao a Marilyn Monroe. C’è poi la sezione “Ladies and Gentlemen”, molto attuale, dove si narra l’esperienza dello Studio 54 che era il cuore della New York festaiola degli anni 70, perché la pop art non è solo identità pittorica, è anche identità sociale. Segnalo anche la sezione “Flash”, molto importante. I flash sono i titoli in basso nello schermo televisivo dove scorrono le notizie del giorno. Viene ripresa la giornata del 22 novembre 1963 quando John F. Kennedy venne assassinato e ovviamente i flash di quel giorno furono questa notizia. Questa serie è molto rara ed è una delle prime volte che viene esposta interamente. Forse è la parte della mostra che sta avendo più successo.
Contributo fondamentale è quello del collezionista Stefano Pirrone che ha prestato le sue opere. Lui stesso sostiene che l’arte deve essere fruibile a tutti. Qual è il ruolo del privato nell’arte, oggi? Qual è il valore aggiunto, in questo caso specifico?
Semplifico l’incontro con Stefano Pirrone dando tre elementi di cosa significa acquisire un’opera d’arte. C’è chi acquisisce semplicemente l’opera d’arte, chi la colleziona compiendo un passaggio più ampio e di ricerca, e chi mette a disposizione la sua collezione senza chiedere denaro: è l’opzione che diventerà il nuovo linguaggio della musealità. Purtroppo viviamo un periodo un po’ complicato e i musei non potranno chiedere grandi prestiti per ottenere opere d’arte, per cui prevarranno le idee e i grandi prestatori privati che decidono di non chiudere in cassaforte le loro opere ma di renderle fruibili a tutti. L’interazione con Stefano Pirrone non è stata solo la sua disponibilità ma anche l’impegno nella costruzione del progetto, nella parte scientifica. Un ruolo non passivo ma attivo.
Andy Warhol è “un grande mistero americano”, mai del tutto risolto. Ancora oggi c’è chi lo definisce un artista commerciale e chi invece uno dei massimi geni dell’arte. Oggi come è considerato e che valore ha? Rimane legato al periodo storico che lui ha vissuto?
Il termine valore mi piace molto perché il nostro progetto esprime due valori di Andy Warhol. Quello commerciale, che è contaminato, perché la continua crescita della valutazione contamina il parere di molti critici. Ma poi c’è il valore culturale. Lui ha raccontato un momento storico dove il consumismo definiva la società americana, che in quel momento era per lui quella precisa cosa. È nel raccontare quella società è stato geniale. Mi permetto anche di dire che l’immagine di Marilyn Monroe diva universale non avrebbe avuto questa notorietà pop se Warhol non l’avesse “traghettata” fino a noi in questo modo, semplificandone la fruizione e portandola a noi in modo molto più leggero. Anche questo è stato il genio di Warhol.
Andy Warhol con le tante copertine di dischi rock ha anche sdoganato quella musica, quella scena; è d’accordo?
Totalmente. Il progetto di Montreux ha una matrice che arriva da molto lontano. La prima mostra che abbiamo realizzato con Achille Bonito Oliva era l’esemplificazione di quanto le 32 copertine di dischi realizzate nel corso del suo percorso creativo fossero la necessità di raccontare l’artista in modo radicalmente diverso e guardando quelle copertine capiamo che è lì, nell’immagine dell’artista, che nasce Facebook.
In che senso?
In questo quadrato che è la copertina la volontà espressiva viene traghettata a noi contemporanei. Facebook è il racconto che attraverso la musica diventa la possibilità di vedere la persona. Nella copertina del disco di Loredana Bertè realizzata da Warhol è la prima volta che la cantante mette il suo viso all’interno di una quadrato e da lì nasce la nostra modalità contemporanea di riproduzione. Fu un precursore anche in questo.
L’ultima parte della sua vita fu segnata da un forte sentimento religioso. Realizzò almeno cento immagini dell’Ultima cena di Leonardo. Pochi sanno che Andy Warhol andava a messa quasi tutti i giorni e che portava sempre con sé una corona del rosario. Secondo alcuni esperti, l’immagine di Cristo lo ossessionava.
È un aspetto rilevantissimo. L’ultima cena, detta “La tela italiana”, che è stata all’interno di tre mostre che abbiamo realizzato esprime questa sacralità. Un’immagine che è stata resa pop. Abbiamo selezionato una decina di scatti della fotografa Maria Mulas realizzati quando Warhol si trovava in Italia, il suo ultimo viaggio perché poi tornò a New York dove trovò la morte. Quegli scatti e i racconti della Mulas dicono di una persona quasi con la sindrome di Stendhal (un disturbo psico-somatico che si manifesta con una sensazione di malessere diffuso associato ad una sintomatologia psichica e fisica, di fronte ad opere d’arte o architettoniche di notevole bellezza, specialmente se si trovano in spazi limitati, nda) davanti a quell’opera, non riusciva quasi a muoversi, non esprimeva nessun giudizio. Ne era totalmente catturato.
(Paolo Vites)
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