Quanti sono gli artisti ingiustamente dimenticati? Tanti. Tra questi uno dei casi più evidenti, si fa per dire, è quello di Esodo Pratelli (Lugo di Romagna 1892-Roma 1983). Eppure nella prima metà del Novecento è stato un artista affermato, ma soprattutto la sua pittura, vista oggi, rivela una voce delicata ma inconfondibile. Forse però è proprio quella sua delicatezza, quel suo esprit de finesse a non imporsi in tempi come i nostri, in cui si ama tutto ciò che è spettacolare.
Che cosa distingue infatti la sua pittura dal simbolismo e dal futurismo, cui è stato vicino negli anni dieci, e dal Novecento Italiano, cui ha aderito negli anni venti? Potremmo dire l’intimità del suo sguardo, perché ha dipinto tanti soggetti con una tenerezza partecipe: la sua casa di Lugo, la sua famiglia con i figli Lilia e Giuliano, i giochi estivi dei suoi bambini, giovani donne allo specchio o addormentate nel bosco, una casa solitaria, un crocchio di ragazzine il giorno della prima comunione.
E con lo stesso sguardo ha osservato i paesaggi, quel creato che per lui rimandava sempre a un Creatore. Anzi, la sua cifra particolare è il bisogno di introdurre nelle composizioni la presenza, spesso inaspettata, di qualche elemento naturale. Nel suo periodo simbolista decora le sue ceramiche con un intero bestiario di rane, serpenti, levrieri, cigni, oltre a giardini di fiori, rami e alberi. Nella sua stagione futurista non dipinge macchine in corsa, ma il cortile di una cascina sotto la neve, l’aia coperta di bianco, l’Astrazione lineare e cromatica di una nevicata. Quando nel 1925–26 dipinge Natura morta invernale, non colloca gli oggetti in un interno chiuso, come di solito, ma davanti alle finestre che si aprono sulla nebbia e la brina di Milano. Quando nel 1927 raffigura Giulia e Laura che si agghindano, non le disegna davanti a un mobile da toilette, ma sullo sfondo del mare e del cielo. Nei paesaggi urbani non lo attrae l’asprezza della metropoli contemporanea, ma lo spettacolo della neve che trasforma per un momento l’ambiente cittadino in un angolo di campagna. E, per citare un ultimo esempio, quando nel 1934 allestisce la Sala della guerra di Libia nella Mostra dell’Aeronautica, sottrae spazio agli aerei militari per disegnare le palme da dattero e da cocco del deserto.
Gli interessano specialmente gli eventi atmosferici che portano nella scena quotidiana qualcosa che l’uomo non può governare. “Godo immensamente quando splende il sole che a Roma abbaglia, e godo immensamente quando piove quell’acqua fresca e profumata e sentirmene alcune gocce cadere dal cielo sul viso” scriveva a diciannove anni dalla capitale al cugino Balilla Pratella. Nei mesi di vacanza, poi, andava a vivere in campagna, a pieno contatto con la natura. “Per dipingere abito in una torre coperta dell’Agro romano, così domino il mondo e assisto agli sconvolgimenti atmosferici che da strani, paurosi passano a gioiosi, olimpici”. E quando nel 1912 parte per Parigi descrive a Balilla le “folle di automobili” della città, ma anche i cieli notturni: “Il mio studio mi parla col cielo che traspare dai vetri del soffitto la notte e il giorno. Mi desto fra le stelle che ridono e le nuvole che minacciano improvvisamente”.
Pratelli non ha lasciato un corpus pittorico di molti numeri. La sua estrema severità di scrutinio, che lo porta a eliminare tanti quadri, è aggravata anche dall’arco di tempo in cui smette o quasi di dipingere: un intero quindicennio, fra il 1935, quando si trasferisce a Roma si dedica soprattutto al cinema, e il 1945. A un tale “buco nero” si aggiunge quella sorta di censura che ha colpito tanti altri artisti della sua generazione, in particolare del Novecento Italiano, identificati in blocco e senza distinzione col fascismo. Nel caso di Pratelli, che pure si è sempre occupato esclusivamente di pittura, ha giocato in negativo anche il suo ruolo di segretario del Sindacato Fascista Belle Arti, prima di Milano e poi di Lombardia, che ha ricoperto dal 1927 al 1932. Non gli è valsa l’attenzione generosa che aveva rivolto agli artisti meno noti e fortunati (la stessa generosità, del resto, con cui dal 1926 al 1934 si era dedicato all’insegnamento, dirigendo la Scuola d’Arte Applicata del Castello Sforzesco e riammodernandola innovativamente).
Eppure, al di là di questi dati extra–artistici, i suoi lavori hanno troppo valore per essere relegati nella Scatola delle cose dimenticate, come si intitola un suo quadro del 1967, che è anche una trasparente metafora della sua vicenda espressiva.
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