Cosa avrebbe visto Cristo, dopo essere stato deposto dalla croce, se i Suoi occhi avessero potuto ancora vedere, prima di riaprirsi, per sempre, la domenica di Pasqua?
Avrebbe visto i pochi amici rimasti; gli altri, come Pietro, Lo avevano abbandonato. Avrebbe visto il volto dell’uomo che andava da Lui solo di sera, l’illustre membro del Consiglio che aspettava il Regno di Dio, Giuseppe di Arimatea (anche questi, come Pietro, non brillava per coraggio: era infatti Suo discepolo in segreto, per timore dei Giudei. Ma poi il coraggio riuscì a trovarlo, e andò da Pilato a chiedere di poter prendere il corpo del Maestro, liberandolo dai chiodi della croce).
Avrebbe visto il volto delle donne, che Lui per primo nella Storia considerò degne di essere trattate con vero rispetto e attenzione: Maria Salomè, Maria di Cleofa e Maria Maddalena, piangente, alla quale Egli sarebbe apparso, risorto, nel giardino del sepolcro. Avrebbe visto Sua mamma, Maria, con l’anima attraversata dalla spada di aver perso Suo figlio, come Le aveva predetto Simeone. E avrebbe visto Giovanni, il discepolo che mai Lo abbandonò, e al quale, sotto la croce, volle affidare Sua madre.
Proprio questi volti avrebbero potuto essere osservati da Gesù secondo lo scultore Niccolò dell’Arca (1435-1494), che nella seconda metà del 1400 realizzò il “Compianto” in terracotta custodito presso la chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna.
Niccolò, che è stato definito “il più grande scultore del Quattrocento insieme a Donatello”, non era bolognese, ma di provenienza meridionale: il termine Apulia, che nei documenti più antichi si trova associato al suo nome, si riferiva infatti a tutto il Regno di Napoli. Acquisì il soprannome “dell’Arca” dopo aver lavorato, sempre a Bologna, all’arca di san Domenico, dove riposano i resti del grande predicatore.
Non sappiamo con certezza quando fu realizzato il Compianto, e le ipotesi di datazione oscillano tra il 1463 e il 1490. Non abbiamo inoltre notizie su coloro che commissionarono l’opera, né sulla posizione originaria con cui le sette figure in terracotta erano originariamente disposte.
L’intensità, la forza espressiva di quest’opera fanno sì che essa sia quotidianamente meta di centinaia di persone, bolognesi e turisti, che si accostano a queste statue le cui movenze, le cui espressioni sembrano rendere la pietra carne viva.
L’intensità della disperazione di Maria Maddalena, il cui volto è diventato quasi il simbolo di tutto il Compianto, è tale da farla sembrare travolta da un vortice di dolore, talmente intenso da spingerla indietro. Lo stesso dolore che Maria di Cleofa sembra voler respingere come un qualcosa di ripugnante, gettando avanti le mani.
Più composto appare il dolore della Vergine, le cui mani incrociate sembrano un segno di quella che fu la caratteristica principale della sua esistenza, l’accettazione della volontà di Dio, qualunque essa sia.
La forza espressiva delle figure femminili del Compianto non lasciò indifferente nemmeno Gabriele d’Annunzio, che nel 1906 definì le Marie “infuriate da dolore – dolore furiale”.
Ma l’espressione forse più sconvolgente, tra quella di tutti i personaggi raffigurati, è quella dell’apostolo Giovanni, che ha il volto appoggiato su una mano, e negli occhi sembra serbare un sommo disprezzo per l’azione appena compiuta dagli uomini: uccidere l’Innocente.
A Bologna, in una piccola via quasi nascosta a lato della grande piazza Maggiore, nel complesso monumentale la cui cupola fu disegnata dal Bibbiena, si nasconde questo tesoro inestimabile, che sembra racchiudere, nella freddezza della terracotta, il fulcro finale della Passione di Cristo, quasi una fotografia del momento in cui tutto sembrava perduto.
Ma Maria Maddalena, Giovanni e gli altri piangenti non sapevano ancora che Cristo sarebbe apparso ad ognuno di loro, guardandoli nuovamente in viso, asciugando le loro le lacrime dopo quella morte che era stata anche per salvare chi Lo aveva ucciso e attraverso la quale la grande nemica era stata sconfitta.
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