Vincere le leggi del tempo. Se mai sia esistita, nel corso dell’esistenza umana, un’utopia così immensa e inafferrabile da risultare addirittura tormentosa, quella di sottrarsi allo spettro della caducità deterrebbe certamente un primato incontrastato. Dalla tensione profondamente metafisica insita nel pensiero medievale alle odierne sfide della realtà virtuale, intenta a rendere sempre più ingombrante il prolungamento della nostra identità in rete; dal millenario impulso narrativo che si cela dietro le rappresentazioni dell’arte figurativa fino all’irriducibile istinto di cattura della realtà che appartiene alla fotografia, non esiste un frangente storico nel quale questa titanica esigenza non si sia manifestata in tutta la sua intensità. Manifesti di istanti la cui brevità appare come uno scandalo a cui opporsi, istanti deputati e condannati a raccontare storie che travalicano la loro effimera durata. Lo spavento della fine che viene sublimato nella ricerca dell’eterno.



In sintesi: Bal au moulin de la Galette. Pochi dipinti, infatti, sospinti dal proprio fascino estetico, hanno saputo, pur rimanendo indissolubilmente ancorati alle convenzioni dell’epoca che li ha prodotti, elevarsi fino ad una dimensione quasi metanarrativa, a canto dell’intero genere umano e dei suoi desideri più viscerali come il capolavoro che Pierre-Auguste Renoir confezionò nel 1876, al termine di una lunga elaborazione intellettuale e compositiva.



Nell’elegante scorcio parigino, pressoché unanimemente riconosciuto come la più icastica rappresentazione della spensieratezza portata in dote in terra transalpina dagli albori della Belle Époque, si scorge, a ben guardare, una sottile e strisciante malinconia, una gioia smussata da un’invisibile cappa di incertezza, un’armonia di pose e di gesti che pian piano pare esaurire la sua sinuosità. Nello spazio di un ballo, tra le luci screziate che a intermittenza strappano all’ombra sorrisi e teneri baci, si consuma il trionfo di un’Europa che di lì a poco scorderà il significato della pace, l’agiatezza del progresso che, appariscente come i cristalli delle luminarie che sormontano il vorticoso volteggiare delle coppie sulla pista, promette di divampare ancora a lungo, salvo poi scoprire di essere destinata a spegnersi con spiazzante rapidità.



Le sapienti pennellate di Renoir non tratteggiano semplicemente l’inizio di una nuova era, ma più in generale il suo compresente tramonto. Una bipolarità paradossale anche solo a dirsi, verrebbe da pensare, eppure ben incarnata già dalla scelta del soggetto e dell’ambientazione. Nella terrazza alberata del locale ricavato dal recupero di due mulini abbandonati, trasformati in un inno alle mirabolanti possibilità della modernità, quest’ultima dà sfoggio di sé con leggiadra naturalezza, rivelandosi pienamente per ciò che, in fin dei conti, rappresenta: un momento che attende il suo culmine soffuso, un attimo di irreparabile fuggevolezza che l’artista disperatamente tenta di incastonare nell’eternità del colore. In quel tourbillon di drappi governati dal vento, di vicende personali che per qualche ora si dissolvono nella febbrile aggregazione domenicale, l’occhio di Renoir indaga il bisogno di un’intera comunità di riempire di lirica la prosaicità del quotidiano, di svago le crepe del tedio.

Nell’affresco di uno spiazzo parigino che diventa il teatro dell’esperienza umana nel suo complesso, realizzato attraverso la tecnica impressionista, che più di ogni altra è stata abbinata all’idea di contingenza, di hic et nunc, si rivela piuttosto il mistero dell’arte che non si arrende al transeunte, al punto da travestirlo in permanenza.

Sì, il ballo si concluderà e con esso l’entusiasmo di coloro che si sono lasciati trascinare dal suo incanto. Sì, la mestizia dei giorni che si alternano indifferenti all’esterno del Moulin tornerà a far sentire il suo peso sugli avventori ancora felicemente inebriati dalla musica e dall’amabile compagnia. E di quel ritmo così sostenuto, di quelle chiacchiere rubate tra una pipa e un aperitivo, non rimarrà che un piacevole, sfumato ricordo. Una scintilla di inusitata gaiezza che, in ogni cuore, proverà a ripetersi all’infinito. Ma che all’infinito potrà soltanto perpetuare il suo avvicinarsi alla conclusione.

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