“Il dolore passa, la bellezza resta”. Così Pierre-Auguste Renoir (1841-1919), tra i massimi protagonisti dell’arte moderna, si rivolge allo stupito amico Henri Matisse, venuto a trovarlo nel buen retiro di Cagnes-sur-Mer, che gli chiede perché si ostini a dipingere nonostante atroci sofferenze fisiche lo affliggano da tempo. È il 1917. Proprio a causa dei suoi malanni Renoir ha scelto di vivere, da una dozzina d’anni, nella ridente e mite località della Costa Azzurra, poco lontano da Nizza, tra aranci e ulivi.



Soffre infatti di una aggressiva artrite reumatoide che gli causa una paralisi progressiva. I primi sintomi nel 1888, poi un peggioramento continuo, che tuttavia non lo scoraggia e non ostacola la sua creatività artistica. Al punto che, a partire dal 1908, dopo l’incontro con Aristide Maillol, benché quasi paralizzato e incapace di plasmare la materia da solo, inizia a esprimersi anche con la scultura, aiutato dal giovane assistente catalano Richard Guino, “creando” capolavori come la splendida Venere vincitrice in bronzo del 1916.



Ormai definitivamente costretto su una sedia a rotelle, dal 1911 per continuare a “mettere il colore sulla tela per divertirsi” si fa legare i pennelli con dei lacci alle mani deformate e rattrappite. Come se non bastasse, i suoi ultimi anni sono caratterizzati, oltre che da una malattia invalidante, dalla preoccupazione per i due figli maggiori Pierre e Jean (il futuro, celebre regista e scrittore), chiamati allo scoppio della Prima guerra mondiale al fronte e feriti, e dalla morte dell’amata moglie Aline, modella e compagna.

Nell’anno in cui resta vedovo, il 1915, per poter dipingere all’aria aperta si fa costruire un atelier nel giardino della casa di Cagnes. È sempre più sofferente, ma non per questo cessa di lavorare: dipingerà e disegnerà senza sosta fino alla fine. È stato un artista prolifico, autore di più di 5mila tele e disegni.



All’ultimo, tormentato periodo creativo del maestro francese è dedicata la mostra Renoir. L’alba di un nuovo classicismo, aperta fino al 25 giugno a Palazzo Roverella di Rovigo. “Abbiamo voluto documentare aspetti meno noti dell’artista”, sottolinea il curatore Paolo Bolpagni, “farlo vedere in un’ottica diversa, fuori dai consueti schemi. Aveva infatti modalità pittoriche e stilistiche così particolari da collocarlo fuori dal tempo”.

Esposte una cinquantina di sue opere, provenienti da musei di tutta Europa (compresa la Bagnante che si acconcia i capelli, 1890, di proprietà del principe Alberto di Monaco), accanto a capolavori di grandi maestri del passato, da Rubens a Ingres, cui si ispirò nella fase matura della sua carriera, di contemporanei come gli “Italiens de Paris” (Boldini, De Nittis, Zandomeneghi) e di autori italiani successivi che a lui si sono ispirati, da de Chirico a Carrà.

Pur segnata da una certa disparità di vedute con Monet, Pissarro e Degas, la fase impressionista di Renoir è la più conosciuta dal grande pubblico (in apertura della mostra Le Moulin de la Galette, studio, 1875-1876). Ma già alla fine degli anni Settanta del XIX secolo era inquieto, insoddisfatto, alla ricerca di strade alternative che lo porteranno a una svolta “rivoluzionaria”, complici il viaggio in Italia negli anni 1882-1883, la scoperta della luce e dei colori mediterranei e una serie di riflessioni sulla tecnica pittorica. Non rappresenta più i passatempi parigini, ma figure eterne, classiche. “Vuole cogliere l’imperitura bellezza”, precisa Bolpagni, “non più stati d’animo passeggeri. È alla ricerca dell’assoluto”. Renoir aveva già avuto modo di ammirare e studiare Tiziano e Veronese, visti al Louvre; ora vuole arricchire la sua conoscenza della tradizione, che non considera qualcosa di vecchio e superato, ma neppure semplicemente da imitare.

A Venezia “scopre” Tiepolo e Carpaccio, a Roma gli affreschi di Raffaello, a Napoli la pittura pompeiana. Compie brevi tappe a Padova e a Firenze. L’esito è una stagione nuova, che si potrebbe definire una moderna classicità. Non dimentica la pennellata impressionista, ma nelle sue opere ora c’è più solidità. Recupera un tratto nitido e un’attenzione alla volumetria e alla monumentalità della figura.

Si dedica anche alla natura morta, come le carnose Rose in un vaso, del 1900 (“dipingere fiori riposa il mio cervello”) e soprattutto ai paesaggi, in particolare del borgo di Cagnes, dove vive. Lo soddisfa aver raggiunto finalmente una pittura “dolce e leggera”, che fa trasparire la sua joie de vivre, in apparente contraddizione con la sua dolorosa condizione. Renoir, pur essendo un artista e non un filosofo, ha una sua visione chiara, un punto di vista che non teme di esprimere e che gli fa accettare le circostanze più difficili.

La madre operaia tessile e il padre sarto, perciò di umili origini, Renoir è lontano da ogni intellettualismo. Anti-positivista convinto, giudica il “razionalismo moderno” come “una forma di pensiero incompatibile con una concezione artistica”. Servirebbe invece una “armonia tra uomini e ambiente” che derivi da un sentimento religioso naturale, dalla fede in un ideale la cui assenza è uno dei motivi della “decadenza dei mestieri”. Giunge così ad anticipare quel rappel à l’ordre (richiamo all’ordine) che di lì a poco si sarebbe manifestato in reazione alle avanguardie. Ma le opere pacate, sontuose e monumentali del tardo Renoir non solo prefigurano alcuni sviluppi successivi dell’arte del XX secolo, ma ci ricordano che la creazione artistica esige calma e meditazione, più che eccitazione e moto febbrile.

Il maestro muore lo stesso anno in cui nasce la Repubblica di Weimar (1919-1933), culla di una cultura e di un’espressione artistica che non trasformano in bellezza le sofferenze e i disastri subiti dal popolo tedesco nel primo dopoguerra; semmai producono un realismo crudo e inquieto, sfrenato, che non si apre a orizzonti ampi e pieni di senso ma rispecchia una società che scivola nel degrado e nella trasgressione. Così la donna raffigurata nei dipinti di autori come Otto Dix e Georg Grosz non è più una porta verso l’assoluto: dietro l’apparenza di una maggior libertà viene ridotta a volgare oggetto di piacere. Ben lontano dalla lezione di Renoir, la cui vicenda personale e artistica ci insegna che dal dolore può nascere la bellezza, perché fanno parte entrambe della vita.

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