Ci sono artisti che con le loro opere sanno farci vedere la bellezza nelle cose più semplici e banali, negli oggetti della realtà quotidiana. Oggetti d’uso comune ma sorpresi in una luce che li trasfigura. Luce e contorni, disegno e colore, ombre e riflessi attraverso cui evidenziano, in quelle forme che a noi sembrerebbero banali e insignificanti, quel “qualcosa di più” che ci fa esclamare: ma come è bella questa bottiglia, quella caffettiera, e quel vaso di fiori in boccio che sentimento fresco della realtà irradia, che senso della vita e delle cose.
Uno di questi pittori, forse il più grande è Giorgio Morandi. Bolognese, classe 1890, a lui è dedicata una mostra dal titolo semplice, Morandi 1890-1964, aperta a Milano, a Palazzo Reale, fino al 4 febbraio. Ripercorriamo così in 122 tele le tappe del suo lungo cammino pittorico, dai primi esordi di Paesaggi e Bagnanti (1913-1918) ispirati allo stile del pittore francese Paul Cézanne, al suo Autoritratto (1914) che reinterpreta Picasso e il cubismo, fino alla serie di Nature morte metafisiche (1918) che sono un omaggio a De Chirico (suo grande amico) e a Carrà. Ma già nel 1916 Morandi dipinge una Natura morta tutta sua, “morandiana” – la prima di una lunga serie – in cui campeggia il caratteristico vaso a torciglione che riapparirà poi in molti altri suoi lavori successivi. Di opera in opera, di sala in sala, vediamo maturare nella pittura di Morandi una luce primigenia, una tavolozza fatta di colori tenui, di valori tonali minimi, a volte caratterizzata dall’uso di due sole tonalità, elementi tutti che rendono unica e irripetibile l’atmosfera dei suoi quadri.
Gli storici dell’arte vedono giustamente nell’opera di Morandi l’influsso di molti artisti di tutti i tempi, dalla pittura medioevale di Giotto e Masaccio al rinascimento di Piero della Francesca, da El Greco a Poussin, da Cézanne al cubismo di Picasso e Braque, alla metafisica di Carrà e De Chirico, al surrealismo di Dalí. Morandi è unico e irripetibile anche in questo, nel saper far sue le conquiste altrui, in una sintesi originalissima di tutte le esperienze che l’hanno preceduto, riportandole all’unità, al semplice, all’essenziale come lui stesso dichiara: “Di novità al mondo non c’è nulla o pochissimo, l’importante è la posizione diversa e nuova in cui un artista si trova a considerare e a vedere le cose della cosiddetta natura e le opere che lo hanno proceduto o interessato”.
Per conoscere meglio questo gigante della pittura, questo asceta del pennello, che lavora come un monaco nel silenzio del suo piccolo studio bolognese al numero 36 di via Fondazza (la casa dove vive con la madre e tre sorelle), possiamo fermare la nostra attenzione su una fotografia del 1953 che lo ritrae davanti a uno dei soggetti preferiti, le bottiglie. Morandi ha 63 anni e il fotografo Herbert List coglie lo sguardo attento dell’artista fisso su questi tre oggetti semplicissimi. Sembra di vedere un meccanico davanti ai pezzi di un motore da riparare, gli occhiali tenuti sulla fronte con le dita per meglio mettere a fuoco da vicino il soggetto, studiarlo, capire da che parte prenderlo. È uno sguardo semplice, concreto. Ecco il segreto difficile della pittura di Giorgio Morandi. Uno sguardo e una vita semplice.
Ma torniamo all’uomo Morandi e immaginiamo di aspettarlo nel suo studio mentre sta tornando a casa da un giro per Bologna. Per strada ce lo descrivono così: alto, magro, forte, le braccia lunghe, il passo dinoccolato come chi “si è appena infilato nei pantaloni”. Ora Morandi è entrato, si è seduto al cavalletto e noi giriamo intorno all’artista per metterci alle sue spalle e osservarlo mentre lavora. Una luce frontale filtra dalla finestra aperta e cade – esattamente con l’angolazione giusta da lui voluta – sugli oggetti che, pennellata su pennellata, diventano vivi sulla tela, vivi di luce e colore. E quelle apparenti sfuocature che le sue pennellate creano sulle superfici degli oggetti, li fanno vibrare di una luce che non si può definire. Una luce materiale e spirituale al tempo stesso. Le due cose stanno insieme, come un ossimoro.
Parlando della sua pittura Morandi dice: “Per me non c’è nulla di astratto: per altro ritengo che non vi sia nulla di più astratto, di surreale e di più astratto del reale”. Quando ha già settant’anni, siamo nel 1960, dalla sua casa bolognese si trasferisce con le sorelle a Grizzana (oggi Grizzana Morandi) nell’Appennino bolognese, in una casa con un ampio studio per dipingere i suoi fienili, le cascine e la campagna intorno, e per lui questo è il paesaggio più bello al mondo. Molte sue vedute richiamano l’atmosfera delle poesie di Giovanni Pascoli. Del resto, tutta la pittura di Morandi è intrisa di poesia. È una chiave di lettura, forse inedita, che emerge dalla visita a questa mostra. Così il muro assolato di una casa bolognese (Cortile di via Fondazza, 1956) richiama il “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale. E una fuga di colline appena accennate (Paesaggio, 1935) in cui, dietro un albero in primo piano (la siepe leopardiana), lo spazio si dilata all’infinito, richiama appunto L’infinito di Giacomo Leopardi. Occasioni. Richiami, magari non voluti.
Ma non è “uno”, solo e unico, lo spirito umano che anela alla bellezza e alla felicità? La strada bianca (il soggetto di una tela del 1941), ci viene incontro di sbieco, fiancheggiata da un cespuglio sulla destra e due casolari sulla sinistra, è strada polverosa di collina emiliana, reale eppure metafisica, astratta e concreta, un quadro senza tempo che potrebbe essere stato dipinto ai tempi di Giotto o di Piero della Francesca, di Seraut o di Corot, poco importa. Il linguaggio della grande arte di Giorgio Morandi è universale, parla la stessa lingua e ci raggiunge tutti. Fuori dalla mostra milanese, seduti in un bar, incominciamo a guardare anche noi la tazzina del caffè in una luce nuova. Lo strano fascino della realtà che abbiamo imparato da Morandi.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.