Domenikos Theotokopulos, detto El Greco. Così lo chiamavano in Italia e poi in Spagna per le sue origini: l’isola di Creta dove era nato a Candia nell’anno 1542 e dove in gioventù dipingeva icone alla maniera greca, appunto. Un’arte sacra, tipica della Chiesa greco-ortodossa, un’arte antica che da Bisanzio aveva trovato il suo centro spirituale nei monasteri del Monte Athos, affacciato sull’Egeo. La scuola cretese, cui Domenico apparteneva, ne era una prestigiosa filiazione. A 26 anni però, come tanti altri pittori cretesi della sua generazione, El Greco (d’ora in poi lo chiameremo così) abbandonò la sua isola e partì alla volta di Venezia, dove rinnovò la sua tavolozza a contatto con i grandi protagonisti della scuola veneta: Tiziano, Tintoretto, Veronese, Bassano. Così sostituì la tecnica tradizionale delle icone (tempera e uovo) con la pittura a olio che dava infinite possibilità creative. Sette anni a Venezia, e poi altri sette a Roma, a contatto con il manierismo e lo spregiudicato realismo di Caravaggio, fecero di El Greco un artista completo e dalle mille potenzialità.
Così tentò il grande salto: la corte di Filippo II di Spagna. Il re però dimostrò di non capire la sua pittura, che nel frattempo si era fatta visionaria, dai colori accesi, dai corpi allungati e dai volti trasfigurati. Quella pittura all’occhio di Filippo II sembrò “stravagante” e fuori dalla normalità.
El Greco ripartì e trovò accoglienza a Toledo, la capitale religiosa della Controriforma spagnola, di cui divenne ben presto interprete di punta, anche grazie alla sua preparazione teologica e ai suoi studi sui documenti del Concilio di Trento. Da Toledo, ormai divenuta sua città d’elezione, El Greco lanciò con la sua arte – certo senza rendersene conto, lo diciamo noi adesso – un vero e proprio manifesto che arriverà a influenzare le avanguardie della pittura del Novecento. La sua opera infatti descrive un ideale percorso figurativo che dall’arte tradizionale delle icone (riprese per esempio da Malevic in Russia) crea un ponte fino al Novecento di Picasso, Cézanne, e all’espressionismo di Marc Franz. Un viaggio incredibile, testimoniato dalle 40 opere esposte a Palazzo Reale alla mostra El Greco, aperta fino all’11 febbraio. Un’occasione unica per il grande pubblico di entrare in contatto, forse per la prima volta, con la vita e l’opera di un grande artista.
La mostra apre proprio con tre icone di scuola cretese. E già qui l’occhio moderno deve adattarsi, come venisse dal “buio”, a quell’arte così diversa dalla nostra, a quei corpi ieratici e fiammeggianti che ritroveremo sotto altra forma nelle opere successive di El Greco. Dalle piccole tavole di legno alle grandi tele. Corpi che vibrano come fiammelle, volti e incarnati su cui brillano le lacrime, le gocce di sudore, il sangue. Par di toccarle! È come fossero appena oggi uscite dal pennello di El Greco che le ha fatte fiorire sulla superficie del dipinto insistendo maniacalmente, velatura dopo velatura, tocco dopo tocco, fino alla perfezione. Non una perfezione estetica ma emotiva e spirituale. Certo, anche le icone venivano “lucidate” con una vernice particolare chiamata olifa, un olio chiarificato che le rendeva brillanti, così che l’immagine rimandasse la luce di ceri e candele. E il cerchio un po’ si chiude.
Qui a Milano, le luci puntate sulla Spoliazione di Cristo, una delle tele più suggestive esposte a Palazzo Reale, rivelano gli occhi lucidi di Cristo che brillano di commozione e ci rimandano, pochi quadri più in là, al brillio delle lacrime di Pietro che lo ha appena tradito, e al volto tenero di Maria Maddalena penitente. Ogni quadro esposto è un’emozione e lo si vede dallo sguardo della gente che indugia su ciascuna tela, e sembra non volersene staccare. Sono quadri magnetici. Così nel San Martino che dona metà del suo mantello a un povero (l’immagine fa da manifesto alla mostra) la pittura a olio, molto densa, mette in rilievo addirittura la spada del santo che vibra di luce sulla tela, e sembra di toccarla quella spada, sembra di sentire il fruscio della lama affilata sul tessuto diviso.
Ma sono soprattutto i volti di Cristo, il Cristo portacroce (sua invenzione iconografica) e il Santo Volto impresso nel velo della Veronica, a mostrarci il legame di El Greco con la pittura bizantina da una parte, e dall’altra a sottolineare il salto di queste opere nella modernità. Quel Cristo infatti ha occhi comuni, per niente spirituali o mistici. Ti si piantano davanti e non ti lasciano, veri come una foto. Si direbbe che El Greco abbia parlato con Gesù. Lo abbia visto prima di dipingerlo. Gli abbia chiesto di rivelarsi agli uomini del Seicento come oggi parla a noi uomini del XXI secolo. Al visitatore attento tutto avviene sotto quegli occhi in un istante, come si riceve da un amico le immagini appena scattate da un cellulare.
Il visitatore potrebbe fare un selfie davanti all’immagine di una a scelta delle tre Annunciazioni (tutte bellissime), presenti in mostra. Per poi dire ai suoi amici che anche lui era là nel momento in cui Maria si è sollevata dal suo inginocchiatoio per dire “sì” all’Angelo sceso da quella nube vaporosa che poi è subito svanita sotto i suoi piedi. Lui era lì con il suo cellulare puntato perché la magia di quella nube che scompariva sotto i suoi occhi, faceva riaccadere in un eterno presente ciò che mille parole o mille prediche non potranno mai dire. E quelle dita sgraziate, allungate di Maria e dell’Angelo (una “strana” caratteristica di tutta la pittura di El Greco, che non sa fare le mani) sono lì a dire a noi tutti che la bellezza non è nella cura del corpo, ma nella luce della pittura che tutto il corpo trasfigura.
Questa contemporaneità costò all’inizio della carriera di El Greco qualche critica. Per esempio, la grande tela della Sepoltura del conte di Orgaz nella chiesa di san Tommaso a Toledo gli procurò critiche da parte del parroco perché El Greco aveva vestito la nobiltà presente a un funerale avvenuto nel 1320 con abiti spagnoli del Seicento. Ma ciò era pienamente in linea con il suo pensiero artistico e alla fine l’opera diventerà il suo capolavoro indiscusso, presente tra l’altro nella mostra milanese.
Se la pittura di El Greco, nella sua contemporaneità, cancella il fattore tempo, facendo rivivere ciò che è passato in un eterno presente, la sua seconda caratteristica è quella di cancellare lo spazio. Così nelle sue storie prese dal vangelo il cielo e la terra si confondono, la linea dell’orizzonte non esiste più ma solo corpi allungati che salgono e scendono in una continuità visiva che non ha riscontro nella pittura della sua epoca. Del resto è come se El Greco cancellasse la divisione tra la terra e il cielo, così tutto ciò che avviene sua terra ha un suo riflesso nel cielo e nei suoi abitanti. Le figure allungate favoriscono questo ponte gettato tra due realtà così apparentemente lontane.
Così, il visitatore della mostra di Palazzo Reale che viene dalla piazza del Duomo, da un mondo così denso di altri umori e di altre suggestioni, può uscire da qui con la certezza che tutto ciò che ha visto può essere ancora rivestito, attraverso l’arte, dai panni del presente, può essere vero al presente. Perché così lo dipingerebbe El Greco.
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