Esistono analisi, mano a mano più dettagliate, che documentano lo scarto tra il recepimento di Vincent Van Gogh (1853-1890) presso i contemporanei e la sua fortuna attraverso i posteri. Questi pur interessanti volumi monografici hanno il pregio di rimarcare le difficoltà di una condizione di vita, ma l’ineliminabile sensazione conclusiva è che la restituiscano con un senso di pietismo pettegolo, di inarginabile desolazione individuale e morale. Quasi come il Sisifo di Camus è bene da vedere felice, così il Van Gogh di Van Gogh è ogni tanto giusto vederlo trionfante. Il pittore è innanzitutto un valentissimo esercitatore di se stesso, forse più tirannico che metodico. Chi lascia oltre novecento dipinti e più di mille disegni non è un signore strambo che si è svagato, ma un rigido conquistatore del suo spazio di autonomia e creatività. Lo dimostra che muovesse da una concezione fondamentalmente olistica del colore. Ricordiamo il suo monito, che lungi dall’essere severo, è inno timido alla pastosità: non c’è il blu senza il giallo e senza l’arancione.
C’è in Vincent un doppio morso incrociato al fondo della sua anima prima ancora che della sua bocca: il senso del dovere (l’artigiano apprendista del suo stesso opus inceptum) e il senso dell’impossibilità (la libertà negata come costrizione in re ipsa, non come potenzialità inespressa). Eppure, nella malinconia sgorgantene, Van Gogh è tutto fuorché un presule della mala sorte. È un sincero partigiano del lato fascinoso della debolezza. Più che un cristiano anonimo, per usare la definizione di Rahner, è un fedele militante aristotelico della natura relazionale dell’umanità. Così relazionale, addirittura, che non tutto di quella relazionalità riesce a farsi comunicare.
Ed ecco allora l’irredimibile promessa malinconica dell’arte: portare a galla esattamente quel frammento nascosto. Come scriveva nel 1888: si può bere il proprio goccio e fumare la propria pipa. Disegnare un universale di enormi moti d’anima in piccoli spazi. Lo prova la “Terrazza del Caffè la sera”: un ritrovo di Arles che ci si restituisce tale e quale alla chiusura dei tavolini al rinomato pub Le Consulat a Montmartre. Ce lo dice “La notte stellata sul Rodano”, con tutte le sue corpose stelle inespresse di angoli luccicanti e sfere di fuoco.
Studioso, Van Gogh, che non lo si dice abbastanza. Studioso senza sconti per sé: nel tardo Ottocento europeo in cui orientalismo è troppo spesso apologia del colonialismo, ecco il “Ramo di mandorlo fiorito”, così meravigliosamente suo e così grandemente erudito da essere più giapponese dei giapponesi. E quanta malinconica sobrietà nel semicontemporaneo “Autoritratto con l’orecchio bendato”? Non vediamo il furioso orecchio reciso o l’estremamente dolente volto deformato: Van Gogh ci mostra il compianto del danno fatto(si). Non c’è nessun d’Annunzio buttatosi dal balcone qualche decennio dopo. Lo sguardo della malinconia è una pentecoste laica: sgrana d’immenso l’infinitesimale, riduce a contatto vicino l’eterno (basti pensare alle pagode del ricordo che proustianamente emergono nella piccola chiesa di Auvers, dove Dio e il ricordo sono facce della stessa medaglia).
Profeta vero questo piccolo genio dei baci dati, degli schiaffi presi e dei baci da dare. Il suo “Caffè di Notte”, con le sedie da asciugare e gli avventori che etimologicamente non sanno andarsene, è quanto di più simile ai nottambuli di Edward Hopper del secolo successivo; senza “La ronda dei carcerati” il pessimismo di Mario Mafai non si sarebbe mai fatto tela. Il “Frutteto in fiore” è una memorabile antologia di perfezione tecnica.
Sulle orme del sentire spinoziano, Van Gogh sembra dirci che se Dio è amore e la natura è Dio, ancor più è vero che la natura è amore. E l’amore che si genera dalla tempra melanconica non è solo l’anello di fuoco cantato da Cash: è una fiaccola sempre accesa. I fiumi tra Francia e Belgio possono esondarci di sopra, ma intanto lei torna a raccontarci che blu non è blu senza l’arancione ed il giallo.