Si è aperta una mostra di William Congdon ed è dal 2012 che non vedevamo più una raccolta significativa dei suoi dipinti nel capoluogo lombardo, cui egli è stato così vicino.
Perché oggi una mostra di Congdon? Perché la sua pittura può interessarci ancora? Visitando la mostra presso la Galleria Rubin di Milano ho sentito risalire tante intuizioni, da insegnante e artista oggi impegnato col tema delle immagini che cerco di condividere con il “mio” sussidiario.
Ricordo con struggimento i primi incontri con i quadri, il volto (in videocassetta), la voce gorgogliante di senilità e l’occhio spalancato sull’abisso del mistero, gli scritti così sintetici e potenti vergati in italiano, da lui americano del Rhode Island.
Ero giovanissimo studente di liceo e in casa mia il pittore era nominato spesso: io sapevo che c’era, era presente. La sua persona – mai incontrata dal vivo – mi ha sempre mosso, intimamente mosso: a guardare, a pensare, a dipingere. Perché alcune personalità muovono l’intimo? A che cosa chiamano, di che cosa fanno sentire l’appello? Una intensità mai vista prima sgorgava dalle sue parole, la forza di una coscienza del proprio essere colta in azione, in action, non in una serie di sillogismi. Una intensità di materia, di “corpo” pittorico che faceva venire voglia di impastarsi con il colore, con il soggetto, per venirne rifatti, ricostruiti, ricomposti.
Per tentare di indicare qualche spunto di lettura, ho scelto di riprendere alcune delle sue parole tratte delle sue molte interviste e trascrizioni di incontri, nonché pronunciate conducendo visite guidate alle proprie mostre. Ma faccio mie innanzitutto le parole di Marco Simi: “fatemi conoscere un pittore che si stupisce di un suo quadro, e lo contempla, commosso, sentendosi guardato – da esso – dal Dono che ogni volta rivela nuovi orizzonti. Senza alcun sentimentalismo o compiacimento”. Il primo grande sostantivo della sua vita è dunque ciò che egli chiama “il Dono”. Il Dono è ciò che egli riconosce da sempre presente nella sua vita e nella sua pittura, è ciò che lo chiama all’essere partner di una nascita, di una generazione: i quadri per lui “nascono”, non “vengono fatti”. Ed egli è colui che, “incinto” dell’immagine, assiste al parto e si stupisce dell’essere che viene alla luce. Ma qui potremmo essere ancora nell’antica idea dello Ione di Platone, del poeta che parla per bocca del dio, che ancora Rimbaud riecheggerà nella Lettre du Voyant (1871): “Poiché IO è un altro. Se l’ottone si sveglia tromba, non è affatto colpa sua. Ciò mi pare evidente: io assisto allo schiudersi del mio pensiero […]”.
Congdon è andato oltre. Si è preso la “colpa”. Da giovane volontario delle ambulanze americane entra a Bergen Belsen e ritrae i volti stupefatti dalla morte di quegli uomini che, se “non mi avessero svegliato alla coscienza del male che è in me, sarebbero morti invano […] La lezione di Belsen è solo nel peccato, il mio peccato”. Il dono non coincide allora con uno spossessamento di sé in cui si raggiungerebbe, per dirla ancora con Rimbaud, “l’ignoto” attraverso la “sregolatezza di tutti i sensi”. È invece il segno di un rapporto drammatico e personale tra l’io e il “tu”, è un rapporto che nella vita di Congdon ha determinato i passi del cammino di ricerca e scoperta del senso delle cose, un cammino che si è spinto fino dove la morte incontra la resurrezione: “Il luogo fecondante, per me, è la paura e la morte, dovunque io trovo la paura e la morte quello è il luogo dove io mi immergo e mi perdo per essere coinvolto nel segno nel quale profeticamente sono stato chiamato in modo che venga fuori il segno salvifico”.
Ed è qui che ci si sente di nuovo irresistibilmente attratti: quanti ci parlano con così aperta sfida della vita e della morte, potendo ritenere la paura della morte un luogo fertile di scoperta della salvezza? La nostra contemporaneità artistica si attarda spesso su una bellezza anestetizzante o su polemiche opinionistiche…ma chi osa guardare in faccia il mistero della nostra vita, corda tesa tra gli abissi, corda che vibra quando avverte la presenza della bellezza quasi come il ladro sussulta all’ululato della sirena della polizia? Perché la bellezza fa sentire il richiamo irrefutabile di ciò che ci attende, del destino per cui siamo nati: la salvezza di tutto. Non è un edulcorante, è un giudizio: è un rintocco che afferma: “è per la vita e l’eternità che esisti, che tutto ciò che ami esiste”. Ecco: tutto, tutto ciò che incontriamo e amiamo. Congdon non è un uomo che possa staccarsi da ciò che incontra nei suoi quadri: è tutto nelle cose e le cose sono in lui, è coinvolto con l’essere delle cose tanto che non può dipingere senza diventare ciò che dipinge: “Il quadro nasce soltanto quando c’è un’identità, quando tu diventi quella cosa. Come ho detto all’inizio: l’arte è segno della comunione di Dio con se stesso, dentro l’artista, dentro le cose che Dio mette insieme; io divento le cose e le cose diventano me”. Come aveva anche già detto Dante: “Poi, chi pinge figura, se non può esser lei, non la può porre…”.
Ma che cosa significa “diventare” quella cosa che si dipinge? Noi non siamo orientali, anche se un concetto simile si riscontra nello zen e nella tradizione del monachesimo buddhista – che avrà grandi parallelismi nello sforzo di liberazione della forma sintetica essenziale come in Matisse – ma per noi, figli volenti o nolenti dell’Occidente greco, romano e giudaico-cristiano, diventare, identificarsi con l’oggetto significa innanzitutto sentire con struggimento che dell’altro, uomo, animale, o cosa, si condivide il destino. Si è come dire “vocati”, chiamati prima all’essere e poi alla “ristrutturazione alla dimensione comunionale della vita”, cioè alla redenzione. La pittura è, può essere allora, libera da estetismi, perché è coinvolgimento profondo e chiaro – senza oscuri misticismi – con l’intimo destino delle cose.
Un solo esempio: dopo il famoso incidente ferroviario avvenuto il 15 aprile 1978, considerato tutt’oggi, per numero di vittime, uno dei più gravi avvenuti in Italia nel secondo dopoguerra, Congdon vuole andare subito a vedere: “però vedere non con occhio vegetativo, turistico, ma che io venga visto e posseduto da quello per la mia salvezza. [… ] l’ho visto in un modo che certo sono venuti ventitré quadri, e mi dispiace che non sono venuti quaranta, perché c’erano quaranta morti e io ne volevo fare quaranta per redimere – un quadro per ogni morto – e invece sono riuscito a salvarne solo ventitré. Capite a che livello è, quando la pittura arriva a questo livello di coinvolgimento con la morte e resurrezione?”.
Questa domanda non riusciamo proprio a schivarla: a che livello ci vuole sfidare Congdon e a quale radicale impegno con la vita! Per questo non ci lascia tranquilli, per questa forza di radicale domanda che si attesta al fondo del nostro sentire la vita. Una forza che non disperde, come accaduto a tanti, troppi in quella gloriosa stagione americana (e come ancora attrae quella forza dirompente dell’action painting, che sembrava travolgere in un’onda alluvionale tutte le convenzioni lasciando poi… solo la pittura, abbandonata, splendido cadavere galleggiante di un’Ofelia prima impazzita e poi annegata…); una forza – dicevamo – che nemmeno esorcizza in un manierismo la tragedia della vita ma, come amava dire lui, inoltra, “è inoltramento della tua storia”, permette cioè di camminare. Congdon ha girato il mondo, camminando nel deserto (il piede che si poggia nell’orma di un Altro come nel capolavoro Sahara 12), nella città metropolitana, davanti e dentro ai grandi templi della religiosità umana, fino alle bocche dei vulcani e dei colossei, sostando nelle stazioni di Calcutta traboccanti di larve umane e sul cane “stirato” dai copertoni dentro l’asfalto – che sarà il suo incontro con il corpo di Cristo sulla croce – per arrestarsi, arrendersi davanti alla dimora sul promontorio di Assisi dove si converte al cattolicesimo, per infine distendersi nei campi silenziosi e gravidi di promessa della Bassa milanese, dove si ritira per vivere gli ultimi lunghi e fecondi anni della sua vita.
Egli si inoltra conoscendo brano a brano il mistero di queste realtà, così potentemente contemplate che la memoria (non dipingeva mai dal vero ma solo a memoria) impasta colori così veri, così terreni e così celesti: colori che sembrano essergli stati donati dal luogo stesso, colori che non hanno più nulla della loro fabbricazione né del tentativo di imitazione, colori che sono frutto, che non ha sublimato ma trasfigurato la sua inesausta sete di senso.
William Congdon è un grande. Che cosa significa? In che cosa egli è per noi “profeta”, uno che “parla in faccia al mondo” di cose grandi? Essere grandi coincide col lasciarsi prendere da qualcosa, da qualcuno di grande. Come egli stesso ci ha insegnato: “Uomo grande vuol dire che un Altro grande ti ha preso. Oggi non esistono più perché usciti dall’orbita si diventa o bambini o matti”.
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