Incontrare Francesco Zavatta non è diverso dall’immergersi nello spazio aperto della sua pittura il cui impatto risulta insieme drammatico e pacificante: drammatico perché ti proietta di schianto dentro vasti perimetri di colore i cui confini, ben sagomati, si profilano scuri all’orizzonte della tela; pacificante perché le linee che tali perimetri attraversano, non sono fughe illusorie dalla realtà, ma guide sicure che cominciano a svelarne l’affascinante mistero.



Siamo a Busto Arsizio, dove il Comune – nell’ambito di un progetto che da tempo valorizza le politiche culturali – ha realizzato, presso la sede espositiva di Palazzo Marliani Cicogna, uno “spazio per l’arte” selezionando, ogni anno, un autore da ospitare. La firma del 2019 è quella di Francesco Zavatta, la cui personale, curata da Giuseppe Frangi, sarà fruibile fino al prossimo 8 dicembre.



Quattro sono le sale di questo percorso ad ampio respiro, il cui allestimento ordina, in successione, altrettante tematiche: Parking, Skyline, Aeroporti, Stazioni.

Per dimensione e colore le opere, realizzate nella quasi totalità con tecnica mista su tela o carta, investono il visitatore con la loro silenziosa profondità e i loro coraggiosi cromatismi. Non fa paura a Zavatta lo spazio “vuoto”, sia esso un parcheggio deserto, la pista di un aeroporto, la volta di una stazione sotto cui sfrecciano i treni, o cieli improbabili, ma reali, che galleggiano al tramonto sopra una Milano del futuro.



Seguire l’artista nella presentazione della mostra conferma e conforta la percezione che il suo lavoro abbia a che fare innanzitutto con l’esperienza, vero cardine, in questo caso, del gesto pittorico: non si ferma Zavatta un istante prima, ma sceglie con ardimento di “seguire il cuore”, che si conferma sempre infallibile quando, come Francesco, si ha il coraggio di assecondarne i moti e di non trascurarne i suggerimenti.

Interessanti, per esempio, a questo riguardo, anche le soluzioni di tele speculari, a trittico o seriali: insieme alle linee che connotano fortemente ogni dipinto, la scelta di spezzare l’opera con il tracciato secco di uno spazio bianco, ne esalta l’intrinseca continuità sottolineando il legame sorgivo con tutte le realtà che la abitano.

È proprio tale metodo che consente, anche a chi guarda, di partecipare misteriosamente a una vita altrimenti celata ai nostri sguardi spesso superficiali, e che esplode invece nei quadri di Zavatta con potente e suggestiva irruenza senza mai scadere in sterile compiacimento.

Si scopre allora come imprevedibilmente familiare lo sconfinato parcheggio dell’ex Alfa Romeo; si contempla commossi il cielo di Milano sconvolto dalla nuvolaglia rossastra che ancora si addensa dopo un temporale; ci si lascia ferire dall’incombente sproporzione che insorge improvvisa di fronte a un gigantesco aereo pronto al decollo per una destinazione ignota; si rimane silenziosi, ma non sgomenti, nel guardare un treno che si allontana mentre ti invade di schianto la nostalgia per chi è partito.

“Una linea per l’altrove”: titolando così il pezzo che introduce il catalogo della mostra, Giuseppe Frangi suggerisce un’ipotesi acuta per stare di fronte alle opere di Zavatta: non esaurendo in sé stesse la loro pur indubbia bellezza, ci guidano invece, grazie al gioco sapiente delle linee, verso una direzione prospettica che, oltrepassando l’orizzonte del finito, riesce veramente a stupirci proprio come “il bel giorno” di cui parlava Camus.