La AST che controlla le storiche Acciaierie di Terni, esistenti dall’ormai lontano 1884, è stata venduta dalla ThyssenKrupp al Gruppo italiano Arvedi che in tal modo si rafforza come grande player siderurgico di livello europeo. Nella società la ThyssenKrupp – dopo il closing previsto per i primi mesi del prossimo anno dopo il via libera dell’Antitrust – si riserva di conservare una quota largamente minoritaria.
La Finarvedi dichiarò nel 2019 un fatturato di 2,7 miliardi di euro, con un valore aggiunto di 455,7 milioni, un margine operativo netto di 134,7 milioni e un indebitamento per 757,5 milioni, occupando 3.564 addetti. Nel 2020 il fatturato è sceso a 2,3 miliardi, con un margine operativo lordo di 216,6 milioni. La AST nel 2019 registrò un fatturato di 1,6 miliardi con 2.346 occupati, mentre lo scorso anno i ricavi sono scesi a 1,4 miliardi, con una perdita di 156,9 milioni. L’operazione di acquisto avviene con capitale di prestito apportato da Bnp Paribas e Bnl e consentirà all’acquirente il completamento del suo mix produttivo, portandolo in tal modo fra gli impianti di Cremona e quelli di Terni, a una capacità massima di 5,7 milioni di tonnellate.
Anche le Acciaierie d’Italia holding – che controllano il grande impianto di Taranto tramite Acciaierie d’Italia e gli altri siti dell’ex Gruppo Ilva – dopo l’ingresso di Invitalia con una quota del 50% dei diritti di voto, entro maggio del prossimo anno, o anche prima, potrebbero cambiare l’attuale assetto proprietario, passando sotto il controllo della nostra holding pubblica, pur conservandovi Arcelor Mittal una quota rilevante del capitale.
Anche per le Acciaierie di Piombino si profilerebbe l’ingresso di Invitalia nel capitale, accanto all’imprenditore indiano Jindal per il rilancio del sito.
Insomma, il capitale italiano, pubblico e privato, torna in posizioni di maggioranza, o si accinge a farlo, in storiche società siderurgiche nazionali riacquisendone asset strategici in esercizio (Taranto e Terni), o rilanciabili come a Piombino, sia pure con una ristrutturazione qualificata dei suoi impianti.
Ora, premesso che il nostro Paese vanta ormai da tanti anni una elettrosiderurgia privata fra le più avanzate in Europa, rappresentata insieme a quella pubblica dalla Federacciai guidata da Alessandro Banzato – che il prossimo 6 ottobre terrà a Milano la sua Assemblea annuale – chi scrive considera positivo questo ritorno di capitali nazionali in imprese storiche della nostra produzione di acciaio. Affermandolo, non si vuole affatto indulgere a miopi visioni nazionalistiche – peraltro del tutto anacronistiche in una fase storica in cui le connessioni azionarie in comparti trainanti dell’industria europea e mondiale sono spesso transnazionali – ma perché l’Italia non solo deve rafforzare ancora di più nello scenario competitivo in cui è inserita la sua ormai più che secolare vocazione industriale – che ha nella produzione di acciaio una delle sue massime espressioni – ma anche perché tale rafforzata vocazione le consentirebbe di proporre, se necessarie e convenienti per il Paese, nuove alleanze industriali con partner esteri.
Infatti, solo possedendo (e gestendo al meglio, ovviamente) stabilimenti di rilevanti dimensioni ci si può confrontare per possibili alleanze con big player di altri Paesi. Se invece il portafoglio delle partecipazioni societarie, pubbliche o private che fossero, risultasse debole e privo soprattutto di quelle partecipazioni di controllo che rendono forte un azionista, chi mai si siederebbe a trattare con il Governo e/o con i privati per costruire joint-venture utili e profittevoli per tutti i contraenti e che abbiano capacità competitive planetarie?
Poi, naturalmente, è auspicabile che questi ingressi di capitali pubblici e privati in grandi società di controllo di fabbriche siderurgiche che hanno segnato e tuttora caratterizzano la storia economica dei territori in cui sono insediate avvengano salvaguardando al massimo possibile l’occupazione dei vari stabilimenti – che nella siderurgia è molto qualificata e non è facilmente sostituibile – e gli ecosistemi di riferimento, con investimenti volti a mitigarvi fortemente sia pure in una prospettiva di medio-lungo termine l’impatto ambientale.
Per tale ragione è ormai fortissima l’attesa che si vive a Taranto per il nuovo – o per il suo aggiornamento – piano industriale e tecnologico di Acciaierie d’Italia che interessa la più grande fabbrica siderurgica a ciclo integrale d’Europa, divenuta da molti anni ormai anche la maggiore fabbrica manifatturiera del Paese con i suoi 8.200 addetti diretti, cui devono aggiungersi i circa 7.000 occupati nelle molteplici attività indotte.
In proposito, tuttavia, come hanno rilevato molti osservatori commentando la vendita di AST, manca ancora almeno sino a oggi il piano nazionale della siderurgia – cui pure il Ministro Giorgetti ha fatto più volte riferimento negli ultimi mesi – che dovrà imperniarsi, è appena il caso di rilevarlo, su una salda alleanza fra capitali pubblici e privati.
E last but non least allo scrivente piace interpretare questo forte ritorno di capitali italiani in alcune grandi società della siderurgia nazionale come una risposta (implicita) ai cultori della progressiva deindustrializzazione del Paese i quali, ad esempio, da tempo vanno affermando che sarebbe più conveniente acquistare l’acciaio sui mercati esteri che produrlo in Italia: ma ciò avverrebbe a detrimento della forza industriale nazionale, com’è fin troppo facile immaginare.
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