Julian Assange, libero, si sta dirigendo in aereo verso le Isole Marianne. Laggiù nel Pacifico, che è pur sempre territorio americano, un Tribunale federale prenderà atto del patteggiamento intercorso tra il procuratore e gli avvocati del fondatore di Wikileaks. La pena concordata corrisponde ai 1901 giorni di reclusione che questo giornalista australiano ha trascorso in custodia cautelare nel Regno Unito, in attesa che i giudici di Sua Maestà decidessero di estradarlo negli USA.



Era ora che questa storia si concludesse con soddisfazione di tutti. Toglie dalle grane americani, inglesi e soprattutto lo stesso Assange, di fatto chiuso tra due mura (in casa di militanti amici, poi nell’ambasciata equadoregna a Londra, quindi nella prigione londinese di Belmarsh) da 12 annassangei, da quando è rincorso da mandati di cattura per aver trafugato e diffuso circa 700mila documenti secretati della CIA e della Segreteria di Stato.



Per Assange, la moglie e i figli significa ovviamente uscire da un incubo, ma pure per le autorità americane e britanniche è un buon modo per dimostrarsi diverse dagli apparati russi, cinesi e iraniani, che incarcerano giornalisti e li accusano di spionaggio. Per Biden sarebbe stato un guaio trovarsi un eroe – o presunto tale – incatenato in campagna elettorale. Fine di un caso ingombrante. Il tutto senza però rinunciare al principio che chi sfonda la cassaforte dei segreti di Stato e li distribuisce a piene mani ha torto marcio e va punito.

Ho scritto: azione di tutti. Non è proprio così. A parte alcuni che l’avrebbero voluto impacchettare e buttare in pasto ai pescecani come traditore dell’Occidente – ma francamente costoro appartengono a frange escluse dal dibattito pubblico –, c’è chi recrimina e ritiene sia stato inferto un colpo terribile al principio della libertà di stampa, e al dovere assoluto della trasparenza qualsiasi cosa venga compiuta e detta sotto il mantello dello Stato e il diritto dei cittadini alla conoscenza di qualunque atto o parola depositata negli scantinati del potere. La tesi è: Assange ha accettato di riconoscersi colpevole sia pure di uno solo dei 18 capi d’accusa perché sotto costrizione, un ricatto vero e proprio, davanti “a un’offerta che non poteva rifiutare” (vedi Il padrino) dato che in caso di ovvia condanna sarebbe stato consegnato per 175 anni ad una cella di massima sicurezza per l’accusa di spionaggio.



Chiunque patteggia del resto fa i conti tra costi e benefici. Questo vale per Assange ma vale anche per lo Stato americano.

In passato ho osato sostenere esattamente la soluzione oggi venuta alla luce. Non è vero che ogni segreto sia ignobile. Non possono esserci segreti che coprano delitti, non ci sono scuse di sicurezza nazionale che possano tollerare l’orrore nascosto e impunito nelle proprie viscere, e un Paese democratico trova anzi la sua forza in questo coraggio. Assange però ha reso noti anche i nomi e le opere di afghani e iracheni che hanno agito contro terroristi, e questo non è un diritto ma una vigliaccata, o almeno una leggerezza intollerabile. Esiste il diritto di autorità – controllate da altre autorità! – a tutelare canali diplomatici sotterranei e fonti riservate in modo da difendere noi tutti, e il bene della pace. Una rinuncia a far valere la legge sarebbe equivalsa a una delegittimazione degli apparati di sicurezza e dello Stato di diritto e del suo reverse che è il diritto dello Stato a tutelare i più deboli.

Dopo 12 anni di sofferenza quest’uomo non ne esce demolito, non è un eroe sconfitto, e neppure è un finto eroe di cartapesta. C’è un paradosso nel finale di questa vicenda. La moglie Stella, gli avvocati e Julian stesso hanno mantenuto un segreto rigorosissimo sulla trattativa in corso. Non hanno applicato la regola di Wikileaks alle loro carte. E pare che nell’accordo ci sia un vincolo di riservatezza.

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