Ieri la magistratura britannica ha rinviato la decisione sull’estradizione negli Stati Uniti di Julian Assange. È qualcosa, ma questo tira-e-molla è estenuante, e credo che il senso della giustizia imponga di dare un taglio non alla testa del giornalista australiano e neppure alla lingua sua e di quelli come lui, ma alla volontà neanche troppo celata di toglierlo dalla faccia della terra. Perché di questo ormai si tratta, gli apparati del deep state Usa vogliono vendicarsi di lui per l’umiliazione subita e dare un esempio perché nessuno osi più penetrare nelle insanguinate cantine della storia.



Ora la racconto così, e mi rendo conto di contraddirmi. In passato, infatti, circa un secolo fa – i cambi d’epoca si susseguono a ritmi accelerati – invitai proprio su Il Sussidiario (19 agosto 2014) a non considerare un eroe quest’uomo. Aveva infranto la legge, divulgando 251mila documenti ottenuti da un complice. C’era di tutto, tra cui intercettazioni di conversazioni private (lo so: un amico era stato citato dall’ambasciatore americano in un dispaccio per Hillary Clinton, e si era ritrovato ad essere considerato una specie di spia, un’infamia che temo c’entri con la sua morte prematura).



Le rivelazioni avevano causato un danno serio a quel tipo di diplomazia sotterranea che non ha nulla a che fare con le dichiarazioni ufficiali, e le cui comunicazioni sono sigillate dal segreto difeso dal codice penale di ciascun Paese. Sono canali su cui viaggiano anche (e sottolineo anche) trattative di pace, messaggi utili a salvare vite. E comunque sono violazioni trattate come un tradimento e punite ovunque con severità.

Come dar torto a una dura repressione quando questa pratica consegni al nemico, pronto a colpire, la segnalazione di obiettivi sensibili o – esemplifico – i piani di reazione ad un attacco terroristico o a un’aggressione militare convenzionale o chimico-nucleare? Non dimentichiamoci che esistono documenti “classificati” (= segretati) anche in Vaticano, e il loro trafugamento è sanzionato sia canonicamente che penalmente (vedi Vatileaks).



Detto questo, da allora ad oggi è diventato chiaro che il travasamento di immense quantità di informazioni non ha obbedito alla volontà di favorire questa o quell’altra potenza globale o regionale, ma semplicemente di mostrare la verità liberando la realtà dal velo della finzione scenica. Non c’è nulla da fare. Gli uomini desiderano la verità che fa liberi. E accettano di pagare il prezzo per questo tesoro. Evito di citare il Vangelo. Basta Martin Heidegger, il massimo filosofo del Novecento, a spiegare come in questo consista la verità: la lingua greca la chiama aletheia (ἀλήθεια), che letteralmente significa “svelamento”. Assange non ha favorito il terrorismo islamico e neppure la Cina. Ha soltanto mostrato come sia fasulla la presunzione di poter agire sempre e sistematicamente mentendo e nascondendo i crimini grazie al diritto della forza.

È stato imperfetto l’agire di Assange quando ha aperto il vaso di Pandora con Wikileaks. Accanto alla sacrosanta denuncia di orrori perpetrati in giro per il mondo per affermare la prepotenza, ha delegittimato di fatto il “segreto di Stato”, che è uno strumento necessario anche per la buona causa della difesa dei poveri e degli inermi (non sempre! Chi è costretto a osservarli spesso è lasciato solo, così che ne sia schiacciato, a costo di salvare la ghirba di autentici mascalzoni che se ne giovano).

Assange è stato ed è imperfetto anche nella decisione di fuggire. Un combattente per una causa civile – scrivevo nel 2014, e scusatemi l’autocitazione – quando è costretto a infrangere la legge in nome di un bene più grande, non scappa. Gandhi ne è un esempio. Infranta la legalità accetta il giudizio del giudice, convinto che questo sacrificio personale farà saltare alla lunga il meccanismo dell’ingiustizia. Pagare sulla propria pelle per la verità è ciò che muta le cose. Assange non vuole morire, come accadrebbe con il regime di detenzione che è dedicato a chi si fa beffe del deep power.

A me pare che Assange abbia pagato abbastanza, direi troppo. Questa sua determinazione a vivere, ma a non coinvolgere altri con la sua confessione, mi pare dimostri che sinceramente quest’uomo sia stato mosso e lo sia tuttora dalla sete di verità, dalla voglia di rivelare al mondo, come Foscolo ritenne di Machiavelli, “di che lacrime grondi e di che sangue, lo scettro ai reggitori”. Far conoscere le brutture del potere qualche volta è in potere dei senza potere.

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