Attraverso WikiLeaks ha rivelato documenti americani segreti relativi alle guerre in Afghanistan e Iraq. Ora Julian Assange, al termine di una vicenda lunga e tortuosa che lo ha visto incriminato in Svezia per altri reati e rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, aspetta di sapere, in un carcere inglese, se l’Alta Corte di Londra confermerà il verdetto che prevede la sua estradizione negli USA, dove rischia 175 anni di carcere.
La sua vicenda, spiega Marcello Foa, giornalista, docente universitario, già presidente Rai e ora conduttore di “Giù la maschera” su Rai Radio1, è un’intimidazione nei confronti della libera stampa che va contro gli stessi principi di cui la cultura americana si faceva portatrice e che negli anni 70 avevano portato alla rivelazione, ad esempio, dei Pentagon Papers, relativi alle strategie americane nella guerra in Vietnam. La speranza è che Assange, qualora fosse estradato, possa essere graziato dal presidente USA, anche se questa resta una brutta pagina per la libertà di informazione. Prima ci sarebbe ancora la possibilità di un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Cosa significa per un mondo occidentale da sempre paladino della libertà veder condannare un giornalista a 175 anni di carcere per aver rivelato documenti segreti?
C’è in gioco la libertà di stampa secondo i criteri che abbiamo vissuto fino a oggi, ovviamente innanzitutto negli USA. Il fatto che un giornalista rischi di fatto di morire in carcere implica un cambio di paradigma molto importante rispetto a quello che avveniva in passato. Un caso particolarmente significativo, che ha anche altre implicazioni.
Quali sono?
Ci sono due palesi incongruenze. Da un lato, Assange viene accusato di spionaggio perché ha pubblicato documenti top secret. Ma questo la stampa americana lo ha sempre fatto, scoprendo ad esempio le pagine più buie della guerra in Vietnam. Pensiamo ai Pentagon Papers, la cui vicenda è stata raccontata nel film The Post con Tom Hanks: i giornalisti dell’epoca non furono condannati perché la Corte Suprema disse che la libertà di stampa è uno dei capisaldi della civiltà americana. Questo caso, invece, segna un altro tipo di approccio.
E la seconda incongruenza?
Se Assange è colpevole allora lo sono anche tutti i direttori di quotidiani che hanno pubblicato le notizie relative a quei documenti. Non solo: WikiLeaks creava pool di giornalisti che grazie a collaborazioni internazionali sezionavano tonnellate di documenti e poi uscivano in simultanea: in Italia lo hanno fatto L’Espresso e Repubblica, in Germania Der Spiegel. Invece i direttori non vengono toccati. E questo non si spiega.
Perché si è scelta questa linea?
L’obiettivo è scoraggiare gli emuli di Assange, per fare in modo che in futuro chiunque abbia accesso a documenti segreti si guardi bene dal pubblicarli. Una pagina che merita una riflessione disincantata soprattutto da parte di chi ha sempre visto negli USA un punto di riferimento culturale, etico e valoriale.
Ciò che preoccupa, insomma, oltre all’ingiustizia di cui è oggetto Assange è la rinuncia a uno dei principi di libertà su cui si basa la cultura occidentale?
Certo. Ritornando ancora alla vicenda dei Pentagon Papers, dobbiamo ricordare che quella era l’America che vinceva il confronto con l’URSS e con ogni dittatura grazie anche a questi episodi, per quanto dolorosi potessero essere per chi era al potere. Oggi siamo in un mondo diverso. Negli ultimi quattro o cinque anni c’è stata una censura attuata attraverso i social media da parte di istituzioni americane. Quando Elon Musk ha preso Twitter, diventato poi X, ha permesso a un giornalista, Matt Taibbi, di consultare gli archivi, ed è saltato fuori che i grandi gruppi online come Google, Facebook e Twitter ricevevano disposizioni per censurare opinioni o personaggi scomodi, in contraddizione con i valori americani scolpiti nella Costituzione. Viviamo da qualche anno un attacco non dichiarato alla libertà di stampa che non può lasciarci indifferenti.
Nel caso Assange la principale responsabilità è degli americani, ma non ci sono state grandi pressioni da altri Paesi per fare in modo che fosse rimesso in libertà. È stato lasciato solo?
Sono rimasto colpito dalla passività dell’opinione pubblica e dei media. Tutti i colleghi giornalisti dicono che Assange non può essere condannato, sulla stampa americana sono usciti degli editoriali a suo favore, ma appaiono come prese d’atto dovute. I media non si sono mossi in modo tale da suscitare ondate di pressioni, di indignazione. E questo nonostante Assange sia in carcere preventivo dal 2019. Una violazione che ha indotto persino l’ONU a denunciare quello che di fatto è un abuso giuridico.
I media si comportano così perché sono ricattabili?
I media mainstream, soprattutto nella realtà anglosassone, sono molto più allineati all’establishment rispetto al passato. Tucker Carlson, giornalista di destra, è stato escluso da Fox News, mentre Glenn Greenwald, giornalista progressista, che aveva pubblicato gli scoop di Snowden, è stato costretto a lasciare il giornale che lui stesso aveva fondato, Intercept, perché la redazione lo ostacolava nella pubblicazione dei primi articoli scomodi sul figlio di Biden. In passato i giornalisti di inchiesta venivano coccolati dalle grandi testate, oggi sembrano considerati un fastidio. Dietro a questo ci sono anche altre ragioni: la stampa indebolita economicamente diventa condizionabile dagli inserzionisti. Un problema diffuso nella stampa occidentale.
Al di là delle previsioni su quello che sarà l’ultimo pronunciamento della giustizia inglese sul caso di Assange, si può dire che il suo procedimento giudiziario in Gran Bretagna è stato gestito in modo politico?
La Gran Bretagna è il primo alleato degli Stati Uniti. L’impressione è che sia prevalsa l’interpretazione colpevolista, anche se io voglio sperare fino all’ultimo minuto che questo non sia vero. C’è una speranza. Anche negli USA si è formata una corrente di opinione contraria al trattamento subìto da Assange: c’è stato un appello bipartisan di deputati e senatori democratici e repubblicani per annullare le accuse. Il mio auspicio è che se dovesse essere estradato negli Stati Uniti ci sia la possibilità di concedergli una rapida grazia da parte di Biden o del nuovo presidente. Così come è stato fatto per Chelsea Manning, che aveva rivelato documenti segreti relativi alle operazioni in Iraq. Resta il fatto che alla stampa è stato lanciato un brutto messaggio. Noi occidentali siamo abituati ad altri standard. Sono sempre stato un profondo ammiratore degli USA, ora seguo questa vicenda con profondo sconcerto.
(Paolo Rossetti)
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