I giornali portano diversi contributi all’ancora iniziale ed incerto dibattito sulla prossima legge di bilancio, e sulle prospettive in termini di politiche per la famiglia; ne scegliamo tre, su diverse testate (Repubblica, Il Sole 24 Ore, Corriere della Sera) che evidenziano tre distinti elementi del dibattito, tutti certamente pertinenti e tra loro collegati.
In primo luogo il puntuale intervento di Sabino Cassese sul Corriere della Sera, che ricorda quanto sia pesante l’eredità del debito pubblico sulle possibilità di scelta dei decisori politici. Di fatto dover ripagare gli interessi sul debito toglie quasi ogni margine di manovra a qualsiasi Governo; tra gli 80 e i 100 miliardi ogni anno, quando il debito complessivo sfiora oggi i 3.000 miliardi: una cifra che quasi non si riesce a scrivere, oltre il 140% del Prodotto Interno lordo! Quale famiglia o soggetto privato potrebbe sopportare un indebitamento superiore al proprio reddito annuale? Se non si interviene con continuità e decisione sul debito pubblico, in effetti, ogni governo ha poco da scegliere, e soprattutto le scelte non riescono a definire un futuro auspicabile, ma si limitano a rispettare le scelte del passato. I costi a debito di ieri impediscono nuove scelte oggi. E le nuove generazioni pagano consumi e impegni di spesa scelti, utilizzati e vincolati decenni prima. Questo ha molto a che fare con le politiche per la famiglia!
Il secondo contributo, dal Sole 24 Ore, ricorda che nel bilancio delle famiglie italiane cresce il peso percentuale delle spese fisse (42%), quelle che non possono essere scelte (bollette, casa, vitto, generi indispensabili); prima del Covid era al 40%. Ciò significa che anche le famiglie hanno margini di scelta e libertà sempre più limitati, rispetto ai loro bisogni, e sono costrette a “spendere” in modo vincolato (consumi, investimenti sul futuro dei figli, scelte di lungo periodo). Più sono bassi i redditi, più il peso specifico dei consumi obbligatori cresce. Insomma: famiglie meno libere e meno ricche. E anche questo ha molto a che fare con le politiche a sostegno della famiglia!
Il terzo tema, il più specifico rispetto alla famiglia, è pubblicato da Repubblica, e preannuncia un’ipotesi di revisione dell’assegno unico che potrebbe snaturarne in modo rilevante la logica e l’efficacia. Aggiustamenti e modifiche di tale misura sono sicuramente necessarie, ma quelle prefigurate da Repubblica (e su cui il Governo Meloni sembra aver già dato qualche smentita, ma servono conferme sulle decisioni reali, poi) non vanno certo nella giusta direzione. In particolare si prevede una revisione “a saldi invariati”, cioè senza fornire risorse aggiuntive. Questo sembra contraddittorio rispetto alle priorità “lotta per la natalità” e “sostegno alle famiglie giovani”: se davvero il futuro del Paese dipende sempre più direttamente dal quadro demografico, non investire decisamente sulle nuove generazioni significa – nuovamente – non progettare il futuro. Le risorse investite oggi sui nuovi nati genereranno ricchezza, lavoro e sostenibilità tra oltre vent’anni: se non facciamo niente oggi, ipotechiamo ancora di più il domani dei nostri figli, che non sarà certo migliore.
In particolare l’idea prevalente – sempre secondo le note di Repubblica – sembra essere ridurre l’assegno per i redditi più alti (57 euro al mese quest’anno), che si dorrebbe limare per spostare le risorse così ottenute verso altri tipi di famiglie (quelle più numerose, quelle con membri disabili, ecc.). Ma questa ipotesi tradisce una delle parole chiave della legge sull’assegno unico, la sua dimensione “universale”, cioè indirizzata a tutti i nuovi nati, per sostenere tutte le famiglie che accettano il rischio (e la fatica, oltre che la gioia) di mettere al mondo un figlio e di “tirarlo su” per almeno 20-25 anni. Così, ancora una volta, si confondono le politiche di contrasto alla povertà con le politiche familiari e di sostegno alla natalità. Sarebbe stato indispensabile, piuttosto, un ulteriore investimento sull’assegno unico e sulla sua dimensione universale, a segnalare una priorità reale della politica a favore della famiglia e della natalità, che finisce in scelte concrete della legge di bilancio, e non solo in dichiarazioni teoriche in convegni o tavoli di lavoro.
Il Governo (tutti i governi, per la verità) tenta di intervenire a favore della famiglia senza spendere, perché ha pochi margini di manovra: ma questa è una strada perdente. Ma speriamo che queste anticipazioni di Repubblica – e il dibattito subito innescato – vengano poi smentite dalle scelte concrete, con risorse investite a sostegno della famiglia. L’assegno unico rimane certamente migliorabile, ma occorre difendere i suoi criteri positivi, non indebolirli: la continuità e la consistenza dell’intervento fino ai 21 anni, la platea universalistica dei destinatari, e la netta distinzione rispetto alle politiche contro la povertà.
Se si indeboliscono questi aspetti, l’assegno unico diventa uno strumento sbagliato, e tanto varrebbe tornare all’ipotesi di una radicale riforma fiscale a misura di famiglia, come il Fattore Famiglia proposto dal Forum delle associazioni familiari diversi anni fa, o come il quoziente familiare francese, o come lo splitting tedesco. Anche perché l’assegno unico è misura assistenziale (e anche per questo ha subìto una procedura di infrazione dalla Unione Europea), e in quanto tale è sottoposta a maggiore discrezionalità da parte dei governi; un fisco a misura di famiglia sarebbe invece un intervento strutturale di tipo sussidiario, che valorizza la responsabilità e la libertà di scelta delle famiglie e dei genitori, restituendo piena cittadinanza – anche fiscale – a quella che rimane “la cellula fondamentale della società”.
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